di Maria Rosa Pantè

Sono una docente inidonea all'insegnamento. Qualche anno fa ho cominciato ad avere problemi di salute legati al mio lavoro che pure amavo profondamente. Ho resistito, ma poi il mio fisico ha vinto. Dopo varie visite sono stata ritenuta inidonea all'insegnamento, ma idonea ad altri compiti.
Sono quindi rimasta nella scuola, non vado in classe, ma svolgo altre attività. Mi occupo della biblioteca, che senza di me sarebbe chiusa; mi occupo di progetti culturali per la scuola e la cittadinanza.

Negli ultimi anni nella mia zona coi ragazzi ho organizzato Letture Dantesche e da quest'anno una rassegna sul mito. Qualcuno già pensa che sono una privilegiata. Faccio un lavoro che mi piace, vario, e sono sfuggita all'insegnamento che è missione davvero faticosa. Chi dice questo dimentica che non ho scelto di essere fragile, non ho scelto di ammalarmi, non ho scelto di essere così come sono: inidonea. L'inidoneità può essere, come l'inettitudine di Svevo, un punto di vista privilegiato sul mondo. La fragilità, secondo me, è stata determinante nello sviluppo dell'umanità verso ciò che è appunto più “umano”. Nonostante dunque qualcuno mi ritenga privilegiata e anche fannullona, ho tirato avanti, facendo del mio meglio, cercando di raggiungere un nuovo equilibrio. Ora con la spending review il governo ha deciso che io transiterò in segreteria, prenderò il posto a un precario (spesso donna e non più giovanissima) che senza di me avrebbe finalmente avuto un posto fisso; la scuola perderà le mie competenze; i libri giaceranno negli scaffali; i progetti culturali resteranno lettera morta.

Io verrò declassata non per miei errori o gravi colpe, solo perché non sono più produttiva, utile, adeguata ai canoni standard. Io verrò punita perché mi sono ammalata, per la mia fragilità, che diventa colpa. E altri pagheranno insieme a me, restando precari, magari senza lavoro.

Tutto questo in nome della crisi. Chi non ha un lavoro mi reputa fortunata e tutti vorrebbero farmi sentire in colpa: “Di che ti lamenti? Mica ti licenziano. In fondo non fai più quello che facevi prima, no?”. Ebbene io non mi sento in colpa a far valere i miei diritti, io non mi sento in colpa a contestare questa erosione dei diritti, fatta in nome della crisi. Anzi, secondo me, solo da noi, dai più fragili può nascere una rivolta verso questo sistema che, in nome della finanza, dello spread ecc. vuole ridurre i diritti di (quasi) tutti. Ecco a rafforzare questa mia considerazione è il fatto che hanno tagliato i fondi anche a chi ha gravi e rare patologie. Noi fragili e fragilissimi lottiamo per la sopravvivenza e siamo più forti di chi non ha la stessa disperazione. Però io vorrei allargare ancora il campo. È chiaro che, colpendo le persone deboli, si fa un salto indietro, è chiaro che, colpendo noi, si colpisce in pieno tutto il sistema di tutele e diritti maturati in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Colpendo i più deboli, si colpisce il fondamento stesso della nostra civiltà. E allargo ancora il campo. In un mondo migliore io sarei disposta a rinunciare a molti dei miei privilegi, non certo il lavoro né la tutela della mia malattia, ma potrei rinunciare tranquillamente al superfluo perché altri vivano una vita degna. Invece questa crisi peggiora la vita di (quasi) tutti. E io non sono disposta a cedere nulla ai pochi sempre più ricchi e privilegiati.

Per ora il mio modo di combattere l'imbarbarimento è rivendicare con forza, anche con il ricorso alla legge, i miei diritti e non mi tirerò indietro. Altri dovrebbero fare così, i sani, i più forti, i giovani, la politica, cioè la cura della polis. Alla fine tocca alla debolezza nella crisi farsi forza.

 

agoravox.it

 

 

 

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