di Diego Novelli
Quando il cosmopolita amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, annunciò in pompa magna il piano “Fabbrica Italia” con venti miliardi di investimenti entro il 2014 si levarono entusiastici inni di plauso da parte dell’allora ministro del Lavoro Sacconi, del Comune, della Provincia, della Regione e dei segretari generali della Cisl e della Uil.
Come contropartita era però sottinteso che i sindacati dovevano firmare un accordo aziendale che peggiorava, in nome della produttività, le condizioni di lavoro in fabbrica. Un sacrificio in cambio della garanzia dell’occupazione.
La Fiom non firmò quell’accordo perché violava le norme vigenti (contratto nazionale), chiedendo invece di conoscere il piano degli investimenti. Il piano non fu mai presentato (se non in un comunicato stampa di poche righe), mentre il referendum indetto sull’accordo venne approvato a maggioranza dai lavoratori di Pomigliano e Mirafiori poiché – come predicò Bonanni – era una certezza per il futuro.
Chi osò avanzare delle riserve fu bollato come estremista, non solo dal giornale della Fiat, ma anche dai vertici del governo e delle istituzioni locali. Ci fu chi invitò i lavoratori a stendere un tappeto rosso (red carpet) per accogliere Marchionne.
Non sono trascorsi due anni da quegli eventi quando già il vento della crisi soffiava dagli Stati Uniti all’Europa. Oggi ministri del governo tecnico ci fanno sapere che non hanno strumenti per intervenire.
Ma Passera e la Fornero lo hanno mai letto l’articolo 41 della nostra Costituzione?
Mentre gli osannatori del manager della Fiat tacciono abbandonandolo al suo destino, Cesare Romiti è sceso in campo indicando come responsabile di ciò che sta accadendo in Fiat “l’uomo che non indossa mai la giacca”.
Che il Cesarone – soprannominato dagli operai torinesi “sgiafela leon”, schiaffeggiatore di leoni – per vent’anni stretto collaboratore dell’avvocato, indossasse la felpa della Fiom non l’avremmo mai potuto immaginare. Invecchiando si diventa saggi.
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