di Paola Natalicchio

Domani saranno ottanta giorni esatti. Di sciopero a stipendio zero e occupazione. Di accampamento in tenda, in mezzo ai rumori insopportabili di via Tuscolana.Di presidio giorno e notte, con Maurizio, capelli bianchi e rughe in faccia, mestiere falegname, che apre le lattine dei pelati e fa il sugo nel pentolone di latta per quando viene fame. Di assemblee spontanee. Con Manuela, che consuma sigarette e si nasconde dietro gli occhiali da sole, perché ha fatto notte. Massimo, che agita volantini. Paolo e Stefano davanti al computer, che scrivono comunicati e controllano i siti web.

Augusta che si mette le mani nei capelli e ogni tanto piange. Sedie bianche di plastica sempre in circolo, dove si tiene stretta una comunità che cercano di dividere in mille pezzi, disperdere, svendere in leasing a qualche multinazionale di passaggio e poi chissà.

 

 Sono stanchi, i 217 lavoratori di Cinecittà , età media 50 anni, busta paga a fine mese di 1100 euro, accampati in difesa del loro posto di lavoro. Impiegati, elettricisti, scenografi, fonici, cineoperatori, costumisti, esperti in montaggio digitale. Tagliati con l’accetta dalla gestione di Luigi Abete, nel 2009, in Cinecittà studios (a cui è rimasta la produzione) e Cinecittà Digital Factory (a cui è finita la postproduzione). Sono qui dal 4 luglio. Hanno rinunciato alle ferie, si son beccati il caldo d’agosto a squagliare il cemento, a fine mese ricevono a casa una busta paga vuota e non intendono mollare. Protestano per una cosa che, quando la senti, sembra una barzelletta da cinepanettone. Ma non fa ridere, neanche un po’. Attaccano il “piano Abete”. Secondo cui in quella che una volta era la forza motrice del cinema italiano e la casa d’ac - coglienza del cinema internazionale non si faranno più film. Si farà altro. Via gli Studios che hanno fatto grande l’Italia nel mondo. Perché 400 mila metri cubi edificabili fanno gola. E allora perché non farci un albergo da 200 stanze, dei parcheggi per 6000macchine, una piscina, un ristorante, una mensa, una palestra, una spa. Perché non mandare gli artigiani migliori della scuola italiana, quelli senza i quali Federico Fellini non faceva un passo, per dire, a fare le scenografie dei parchi divertimenti, gli elettricisti di scena a fare gli allacci per i centri commerciali. Cinecittà World, si chiamerà quello previsto sulla Pontina, accanto al centro commerciale di Castel Romano. Hanno iniziato già a tirar sù la struttura, i lavori sono avanti. Qui finiccc Chi protesta ha in media 50 anni e guadagna 1100 euro in busta paga rà il settore delle costruzioni scenografiche, appunto, 52 lavoratori assorbiti in una società che si chiama CAT (Cinecittà, Allestimenti e Tematizzazioni), dedicata all’allestimento di parchi a tema e centri commerciali, appunto. I 92 lavoratori della postproduzione, invece, passano alla multinazionale Deluxe, con contratti di 3 anni e diritto di recesso. Negli Studios restano in 47: impiegati e amministrativi, non si sa bene a fare cosa, mentre sono già avanti i lavori per nuovi bar e bookshop. In 18, infine, rischiano il licenziamento.«Siamo davanti unduplice delitto: del lavoro e della cultura. In nome di cosa? Di un progetto di speculazione bella e buona», dice Massimo Corridori, 56 anni, da 27 elettricista a Cinecittà, mentre i colleghi mettono la moka sul fuoco del fornelletto da campeggio. «Si stavameglio prima del ‘97, quando gli Studios erano nelle mani dello Stato», ribadisce Manuela Calandrini, impiegata, coetanea di Massimo, anche lei qui da quasi trent’anni. «Però lo Stato, diciamolo, qui c’entra ancora. Il 100% dei terreni e degli immobili sono del Ministero del Tesoro. Il 20% della società resta del Mibac, il ministero dei Beni culturali. Abete e i “soci influenti”Della Valle e De Laurentiis hanno il restante 80%. Però il Governo se volesse potrebbe fare qualcosa, fermare questo scempio », insiste Manuela. «La politica sta provando a mediare, ma sembra impossibile. Ieri la Commissione Cultura della Camera voleva entrare dentro gli Studios insieme ai lavoratori, manonhannofatto passarenemmenoi parlamentari », si inserisce Fabio Bonanno, il responsabile cultura del Lazio di Sinistra Ecologia e Libertà, che qui al presidio ci passa spesso, dall ’inizio, per provare a dare una mano. Anche se con la politica, con i sindacati, i lavoratori sono arrabbiati. «Dov’è Bersani? Dove sono tutti gli altri? Com’è possibile che questa vertenza non si sblocchi in nessun modo? Ci stanno vendendo pezzo per pezzo. I nostri sono licenziamenti mascherati. La fine che faremo è chiara », dice Augusta Galeotta, capelli corti, sulla quarantina, conunmagone che stringe la gola. «Il processo di smantellamento inizia da lontano. Già nel ‘99 cercarono di fare qui un multisala e un centro commerciale, ma il consiglio comunale si oppose e non se ne fece nulla. Lo sfruttamento immobiliare era nei piani fin dall ’inizio. Basta vedere come lentamente le produzioni sono calate e nessuna politica di rilancio è stata pianificata», spiega Paolo Perugini, stessa generazione di Augusta, vice-responsabile della falegnameria degli Studios. Le ultime produzioni importanti, in effetti, sono due: Gangs of New York, di Martin Scorsese, e Ro - me, una fiction per il pubblico americano, andata in onda anche in Italia fino all’anno scorso. Poi il cinema italiano sembra aver traslocato. «Se ne vanno a produrre nei Paesi dell’Est, perché costa meno. Tranne alcuni grandi amici di questo posto, come Carlo Verdone, che è venuto a girare qui anche il suo ultimo film, Posti in piedi in paradiso. Lo ha voluto a tutti costi», continua Paolo. «Adesso abbiamo anche Citto Maselli che ha fatto una proposta alla società, per produrre qui 22 film e documentari. Lui e Ettore Scola hanno già fatto un appello per noi, insieme a tanti altri attori e cineasti. E noi ci siamo già resi disponibili: pur di mantenere aperti i 19 teatri siamo disposti a lavorare anche guadagnando meno. Abbiamo anche pensato di mettere su una cooperativa, fare una proposta d’ac - quisto per un teatro, qualche camerino, alcuni mezzi. Siamo sicuri che il cinema sia un pezzo dell ’economia del nostro Paese, sia un’indu - stria che può fare reddito, fruttare euro, se ci si investe», riprende Massimo. «Servirebbe anche una mano dalla Rai. Perché le produzioni, pagate col nostro canone, non si fanno qui, piuttosto che all’estero?», ripetono in molti da queste parti. Arriva la pasta di mastro Maurizio a tavola. Rigatoni all’arrabbiata. Ma arriva anche, in diretta, una lettera dal Mibac, firmata dal Direttore generale per il Cinema, Nicola Borrelli. Dice che la società ha già deciso. Che ogni tavolo su Cinecittà serve solo per stabilire i dettagli del passaggio delle maestranze alla CAT e delle procedure di mobilità per tutti gli altri che passano altrove. I lavoratori rispondono continuando lo sciopero a oltranza. «Il 26 settembre faremo un’assemblea pubblica, aperta a tutti, compresi politici e sindacalisti. Diremo che noi andiamo avanti con l’occupazione. E chiederemo le dimissioni del ministro Ornaghi».

 

Pubblico 21 settembre 2012

 

 

 

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