di Marco Consolo

E quindici. Dal 1998 ad oggi, in Venezuela il presidente Chavez ha affrontato 15 processi elettorali vincendone ben 14. Oggi si avvia al suo quarto mandato con un sostegno del 55% dell’elettorato (più di otto milioni di voti) contro il 44% di Henrique Capriles, candidato dell’opposizione e degli Stati Uniti. La destra consolida un suo zoccolo duro con più di 6 milioni di voti. La sua campagna elettorale è stata paradossale, e Capriles ha dovuto travestirsi da agnello “socialdemocratico” dichiarandosi ammiratore dell’ex presidente brasiliano Lula mentre prometteva di mantenere le “misiones” sociali bolivariane. Lo stesso Capriles che era stato in prima fila nel violento assalto all’ambasciata cubana a Caracas durante il tentativo di golpe del 2002.


La grande stampa italiana ha registrato stizzita l’ennesima vittoria del candidato bolivariano, in prima fila il solito Omero Ciai su Repubblica, ma anche Gianni Riotta sul Corriere e Massimo Cavallini su Il Fatto quotidiano. Commentatori che non riescono ad accettare la vittoria di un progetto che si richiama apertamente al socialismo, in controtendenza alle politiche di “sacrifici ed austerità”, a quel “pensiero unico del mercato” che sta distruggendo lo Stato sociale nell’Unione Europea. Insieme ai giornalisti della grande stampa internazionale, di destra e dello stesso centrosinistra, si arrampicano sugli specchi a corto di argomenti. Non possono più accusare Chavez di essere un “dittatore”. Abituati alla politica nei palazzi del potere, accusano di populismo il Presidente Chavez ed il suo governo, perché in questi anni hanno usato le entrate del petrolio per rafforzare l’intervento dello Stato con politiche pubbliche a favore di educazione e salute gratuita, creazione di lavoro nel settore pubblico, lotta alla povertà, costruzione di case popolari, cultura, democrazia partecipativa e protagonismo dei popoli originari, nazionalizzazioni di alcune imprese in settori strategici (energia, telecomunicazioni, alluminio, cemento, etc.).
Nel continente latinoamericano, il governo venezuelano è stato il motore di un’integrazione regionale autonoma dagli Stati Uniti, e dalla stessa Unione Europea con la creazione dell’Alba (Alianza Bolivariana de los pueblos de Nuestra America), il rafforzamento di Unasur e l’appoggio alla recente creazione della Celac, vero e proprio contrappeso all’egemonia statunitense sul “cortile di casa” ed ai suoi progetti di dominio.
Chavez vince perché ha saputo dare speranza ad un popolo che ha sofferto sulla propria pelle le politiche neo-liberali per troppo tempo, grazie all’alternanza bipartitica di Acciòn Democratica e Copei, rispettivamente membri dell’Internazionale socialista e di quella democristiana che avevano saccheggiato e svenduto il Paese alle multinazionali straniere. Ha ridato protagonismo ai settori esclusi e “dimenticati” oggi in prima fila nell’appoggio al governo. Quello che sfugge ai commentatori da salotto è che il popolo venezuelano ha riconquistato una dignità persa negli anni precedenti.

Certo il “processo bolivariano” non è esente da contraddizioni, come è naturale che sia un qualsiasi processo vero di trasformazione profonda. E l’ipoteca della salute del Presidente Chavez pesa come un macigno sul futuro del Paese.
Il “socialismo del XXI° secolo” nella versione venezuelana somiglia più ad un capitalismo di stato redistributivo che ad un socialismo centralista di stampo sovietico. Non ha modelli da imitare, ma al contrario naviga in mare aperto cercando una propria strada e proprie alleanze. La vecchia “quarta repubblica” intrisa di corruzione, clientelismo e nepotismo è incrostata profondamente nella società e nello Stato ed il problema della criminalità crescente non è certo un tema da sottovalutare, soprattutto a Caracas e nei grandi centri del Paese. Andare al governo significa avere la possibilità di iniziare un processo di trasformazione, che si scontra con la realtà quotidiana di inefficienza di molti progetti. Il Psuv (Partito Socialista Unito del Venezuela) è ancora debole per affrontare le sfide del presente e la formazione dei suoi quadri è urgente, anche per sgombrare il campo da quelli che sono montati sul cavallo del vincitore in maniera opportunistica. Il nuovo movimento sindacale è debole soprattutto nel settore privato, soffre ancora di divisioni al suo interno e cerca un suo ruolo non subalterno al “governo amico”. Insomma, parafrasando Gramsci, il vecchio non è ancora morto e il nuovo sta consolidandosi lentamente.
Il Venezuela dimostra che la sinistra vince quando fa la sinistra senza tentennamenti. Fra qualche mese ci saranno le elezioni regionali e quelle municipali. Un altro banco di prova per la “rivoluzione bolivariana”, motore e laboratorio della lotta anticapitalista nel continente.
Da parte nostra, i migliori auguri al popolo venezualano ed al Presidente Chavez.

 

 

 

 

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