di Giovanna Loccatelli
Il discorso è in programma per le 19. All ’Ewart Memorial Hall, aula magna dell ’Università Americana del Cairo a Tahrir Square. L’entrata principale è in via Mohamed Mahmoud, conosciuta come la “strada dei graffiti”. La fila è impressionante: un lungo serpente umano che, alla prima occhiata, non sembra avere fine. Davanti il portone di legno: strepiti, urla, persone schiacciate contro il muro, ragazze che a mala pena riescono a respirare e chiedono - disperatamente - di uscire dalla calca. Una tensione tangibile. La sicurezza fa entrare studenti, giornalisti, cittadini, persone curiose, attivisti, rivoluzionari, intellettuali.
Non ci sono delle regole precise: entra chi ha più forza, chi spinge di più, chi conosce più persone all’interno e chi è più fortunato.
Alcuni ragazzi mostrano il tesserino: «Siamo giornalisti, ci siamo accreditati» urlano; altri la tessera dell’Università: «Studiamo qui, fateci entrare». Un deliro inaspettato, specie per un’iniziativa culturale. Un po’ in disparte una giornalista americana esclama. «Non stupitevi: questo è il sistema egiziano, poca professionalità anche in circostante importanti! ». C’è un secondo ingresso: tra piazza Tahrir e la seconda entrata si innalza un alto muro fatto di grosse pietre, eretto durante la Rivoluzione. Una cinquantina di persone si arrampicano: scavalcano la parete con l’aiu - to di alcune tavole di legno, messe lì apposta per facilitare il passaggio. All’interno del cortile, una massa di gente incandescente, ma meno numerosa: anche qui spintoni, urla, ragazze sfinite che si accasciano per terra. Qualcuno abbandona, la maggior parte non desiste. Improvvisamente, una ventina di ragazzi, esasperati, fanno la carica alla seconda porta e riescono a entrare. Mentre uomini della sicurezza e la polizia li rincorrono.
Noam Chomsky, ignaro del delirio fuori dall ’Aula Magna, inizia a parlare alle 19 in punto. Il suo intervento intitolato “L’ordine del mondo emergente e la Primavera araba” punta il dito contro la politica estera americana e quella di Obama nelle ultime rivoluzioni in Nord Africa. «All’America - incalza il linguista - non interessa che le politiche nei Paesi arabi riflettano l’opinione pubblica. La politica americana fino ad oggi si è basata sugli interessi economici, con i singoli dittatori che - a loro volta - si assicuravano che i cittadini non manifestassero il loro pensiero in modo democratico». Quanto al presidente americano, aggiunge Chomsky, «Obama, come i suoi predecessori, ha appoggiato i dittatori fino a quando ha potuto». Ma non appena i militari, continua l’intellet - tuale Usa, si sono rivoltati contro il Faraone, in quel preciso momento ha subito sbandierato dichiarazioni in supporto della democrazia. Salvo poi cominciare a lavorare a stretto contatto con il governo successivo per «assicurarsi che la struttura del vecchio regime rimanesse intatta».
In prima fila Amr Moussa, già candidato alle elezioni presidenziali. E poco lontano Alaa Abdel Fattah, un noto blogger fra i rivoluzionari più attivi contro il regime di Mubarak. Terminato il discorso, dopo un’ora, la platea scoppia in un applauso interminabile. Il rettore dell’Università, recuperato il microfono, gli rivolge cinque domande: scritte - in precedenza - su fogliettini di carta. Al quesito sul governo islamista dei Fratelli Musulmani e sulla sua effettiva capacità di diminuire le ingiustizie sociali nel Paese, Chomsky rimane vago: «Non vedo motivi perché la politica della Fratellanza si debba opporre alla lotta dei lavoratori». Per poi essere più chiaro e diretto in un’intervista, rilasciata la sera stessa, a una popolare emittente locale, OnTv . «I sogni e le speranze della Rivoluzione non verranno soddisfatte dall’attuale regime islamista» tuona Chomsky superstar. Una risposta che non lascia spazio a interpretazioni.
Pubblico 25 ottobre 2012