di Alba Sasso
L’agenda del rigore sta lasciando segni sempre più evidenti e profondi nella vita quotidiana delle persone, nel loro stile di vita, nelle abitudini, perfino nell’alimentazione o nell’abbigliamento. Nelle famiglie c’è sempre di più paura, incertezza, vacilla quella sensazione che comunque ce la faremo, come ce l’abbiamo sempre fatta; si riducono persino le iscrizioni a scuola, le immatricolazioni all’Università. E non a caso sono studentesse e studenti, giovani e giovanissimi, in Italia come in Europa a reagire, a scendere in piazza per opporsi a un “futuro disegnato da altri” in maniera nuova, più profonda, più consapevole.
Le manifestazioni che in queste settimane stanno riempiendo le piazze, la durezza del contrasto opposto dall’apparato dello stato, le tensioni e gli scontri testimoniano, al di là dei singoli episodi, di un fenomeno in parte diverso da quello degli anni passati. Non sono solo studenti insoddisfatti quelli che manifestano, occupano le scuole, che praticano una democrazia di massa e si organizzano per autodifenderla. Sono giovani davanti ai quali si spalancano baratri di nulla, buchi neri di paura. Paura del futuro, di non trovare un lavoro, di passare anni in una scuola “minima”: meno insegnanti, meno ore, meno laboratori, una scuola colpita nelle sue punte di eccellenza, una scuola che rischia, nonostante la buona volontà e la passione di tanti, di lasciare indietro gli ultimi, e di acuire sempre più le già drammatiche differenze sociali e culturali. La trincea ormai non è più, o non solamente, quella della difesa di una scuola pubblica di cui si è fatto strame in questi anni. Non basta rimediare ai danni fatti da ministri come Gelmini o da provvedimenti come il ddl cosiddetto ex Aprea, che hanno inferto colpi durissimi alla natura pubblica della nostra scuola.
In ballo c’è di più, molto di più. La nuova consapevolezza sociale dei giovani sembra stia riuscendo ad individuare e mettere in connessione l’ordine dei problemi, a tracciare una linea di mobilitazione che abbia nella prospettiva del lavoro, in tutte le sue declinazioni, la bussola su cui orientarsi. I governi degli ultimi anni hanno continuato a mettere in contrapposizione giovani e anziani. Ora che è stata fatta la più brutta riforma d’Europa delle pensioni, stanno male gli anziani e continuano a star male anche i giovani.
Questa agenda politica continua a ignorare la questione “giovanile”, a non avere un’idea di futuro, a continuare ad operare tagli che, più che razionalizzazione della spesa, sono ferite profonde in mondi sensibili e decisivi come la scuola, l’Università, la ricerca. E dunque rimane sul tavolo, ritorna ad abbagliare gli occhi di chi la guarda, una questione giovanile che è immediatamente e indissolubilmente quella della connessione tra sapere e lavoro.
I dati dell’occupazione giovanile parlano di un vero e proprio crollo, a fronte del quale il ministro Fornero non ha semplicemente che il nulla da contrapporre. Se non, al peggio, ricette di un liberismo triste e rabbioso. È questo il tema delle battaglie di questi giorni. Che non sono affatto solo battaglie contro. Anzi c’è la richiesta forte di un impegno da parte della politica di lavorare a una scuola che ritrovi la sua ricchezza, la sua qualità e la sua specificità di tempo di spazio e di vita dei giovani. Un governo della scuola in grado di restituire senso e significato a parole come diritto allo studio per tutte e tutti, come diritto alla qualità in ogni percorso di istruzione e formazione, come capacita di garantire saperi di responsabilità e di cittadinanza.
Una scuola per «liberare i saperi», come dice un fortunato slogan degli studenti: saperi per crescere, per vivere, per lavorare. E tutto questo non è solo problema di chi governa la scuola: è un problema di priorità, di scelte strategiche, di un’idea di crescita del Paese, per tornare a dare ai ragazzi una qualche prospettiva credibile di futuro, per restituire alle famiglie la speranza.
Il movimento di questi giorni sta mostrando un rapporto tra ragazzi e adulti, tra sapere e lavoro che sembra nuovo e più solido del passato, perché la crisi lavora a che questo accada. Può essere un’occasione storica, saldare questi interessi in un fronte unico, trasformare i morsi della crisi in rabbia organizzata, in movimento che trasforma lo stato delle cose, in un futuro che torni a essere una realtà praticabile e non solo una lontana galassia del possibile.
il manifesto 24.11.2012