di Luciana Castellina

Lucio Magri, quando, un anno fa, ha deciso di porre fine alla sua vita, aveva lasciato detto che, per carità, non voleva orazioni funebri attorno alla sua bara. «Come alle presentazioni dei libri, in cui tutti parlano di se stessi anziché del volume perché non l’hanno letto» – aveva aggiunto.

E così il suo funerale fu sobrio e muto. E però a una cosa Lucio teneva: che quanto aveva scritto, se vi si fosse rintracciato un interesse, fosse discusso con serietà.

È per questo che, a un anno di distanza, abbiamo curato l’uscita di un libro che contiene una selezione dei suoi scritti (“Alla ricerca di un altro comunismo”,Il Saggiatore, 2012), la registrazione di una inedita, lunghissima conversazione con Famiano Crucianelli e Aldo Garzia che gli sono stati assai vicini quando si era ormai chiuso in un desolante isolamento, una mia prefazione che ricostruisce l’itinerario suo e in gran parte nostro – del Manifesto e del Pdup –necessaria a dare contesto agli altri scritti.

Lo abbiamo fatto perché, anche a noi che pure li conoscevamo, a rileggerli dopo tanti anni, i suoi saggi e le sue relazioni a convegni sono apparsi di straordinario, attuale interesse. Non archeologia, insomma, ma materiale su cui vale la pena riflettere oggi mentre ci dibattiamo in questo marasma che è diventata la sinistra.

Il primo, datato nel lontanissimo 1962, è una rielaborazione, pubblicata da Temps Moderns, la rivista di Sartre, di un famoso intervento ad un altrettanto famoso convegno sulle tendenze del neocapitalismo che aveva organizzato l’Istituto Gramsci. Dico famosi perchè fu quella l’occasione per una prima, aperta polemica che si sviluppò nel Pci attorno al senso dei travolgenti mutamenti che stavano scompigliando l’Italia: l’avvento della modernizzazione capitalista intrecciata alle nostre storiche arretratezze; i nuovi fenomeni del consumismo e dell’emersione di nuovi bisogni, di cui già stava parlando la sinistra francese e inglese e la sociologia americana; le nuove contraddizioni che si aprivano. Nuove, appunto, rispetto a quelle del passato; e che dunque imponevano anche nuove scelte strategiche, l’acquisizione di una nuova cultura. Quel dibattito si protrasse a lungo nel Pci, ebbe un riflesso pesante nell’XI Congresso e segnò poi la dialettica fra ingraismo e amendolismo. La problematica su cui Magri aveva insistito con molto anticipo nel ’62 divenne evidente con il ’68 e fu non a caso all’o rigine dello scisma de Il Manifesto. Ancor oggi questo scritto di Temps Moderns colpisce per la sua conservata pertinenza, così come i successivi sulla crisi, vista, anche questa con straordinario anticipo, già nel 1973, imponendo bruscamente al riformismo di fare i conti con i limiti della propria prassi e teoria. «Breve vita felice di lord Keynes»,uno degli articoli di quel periodo, il cui titolo parafrasava con ironia quello di un celebre racconto di Hemingway, animò poi un ricco dibattito su Il Manifesto cui presero parte tutti i grandi della sinistra italiana ( ahimè esclusi quelli del Pci, ché l’eresia non era stata ancora perdonata e il dialogo restava ancora penosamente interrotto).

Il Manifesto, prima rivista, poi quotidiano, fin dall’inizio “movimento organizzato” (non volevamo essere solo intellettuali che si limitavano a scrivere e, del resto, non ce lo avrebbero permesso i tanti giovani che non vollero essere solo lettori); poi Pdup, quando, nel ’75 si unì al gruppo ex Psiup di Vittorio Foa e della sinistra aclista, è stato molto segnato dalla personalità dei suoi fondatori: Rossana Rossanda, Aldo Natoli, Luigi Pintor e Lucio Magri, il solo che non aveva fatto parte del gruppo dirigente del Pci. Non solo perché più giovane, ma anche perché proveniva da un’altra storia, quella dei Gruppi giovanili della Dc.

Era cresciuto a Bergamo, e ancora agli inizi degli anni ’50, in quella come nelle altre zone bianche, la scelta era quasi obbligata: la dialettica destra/sinistra era tutta interna alla sventagliata galassia cattolica, il comunismo alla portata solo di qualche piccolissima minoranza operaia, fra cui un ruolo importante ebbe Eliseo Milani, operaio a 14 anni alla Dalmine, poi anche lui con noi e il solo di cui Lucio riconosceva e accettava l’autorità.

Sebbene con gli anni il gruppo fondatore si sia anche diviso su questa o quella scelta, fino ad una dolorosa separazione fra partito e giornale alla fine degli anni ’70, un patrimonio politico-culturale comune è rimasto. Tanto, infatti, da potersi ritrovare tutti nella nuova serie della Rivista che, fra il 1999 e il 2004, uscì con Il manifesto.

Ma rimasto anche nei tanti in giro per l’Italia che hanno condiviso questa storia e che, non a caso, nonostante approdati a scelte in parte diverse, sono voluti nei giorni scorsi arrivare, in molti, fino a Recanati – da Trieste da Torino da Palermo dalle Puglie dalla Calabria persino dalle africane Canarie, così come dalle regioni più vicine - per celebrare l’anniversario della morte di Lucio, nel luogo della sua sepoltura, con la presentazione di questo libro. Innanzitutto l’idea ben ferma che un partito deve essere il risultato di un lungo e complesso processo storico e che dunque noi non potevamo pretendere una rappresentanza piena e definitiva, ma essere solo una formazione provvisoria, uno stimolo alla rifondazione di un partito comunista rinnovato, in cui si sarebbero dovute ritrovare le forze storiche e quelle nuove della sinistra. Fu una delle nostre diversità rispetto alle altre organizzazioni della nuova sinistra, che peraltro irrise a questo nostro modo di essere su cui pure sarebbe utile riflettere in un tempo in cui i partiti si inventano e si sfaldano con tanta facilità.

Proprio da qui l’idea, su cui Lucio insisteva sempre, secondo cui anche se si è una forza dell’1 per cento ci si deve comportare come se si fosse una grande forza, le cui scelte hanno conseguenze concrete e pesanti. L’idea, cioè, che non dovevamo fare le mosche cocchiere, non per moderatismo, ma per responsabilità. Per questo siamo riusciti a non diventare mai anticomunisti, sforzandoci di capire le ragioni delle scelte del Pci, anche se le criticavamo, ma credo mai con faciloneria (anche perché questo – evitare le caricature - è sempre il modo migliore per polemizzare con efficacia ).

Lucio Magri – l’ho scritto anche nel libro – aveva un pessimo carattere,era privo – diceva sempre il suo miglior amico,Michelangelo Notarianni – “dei sentimenti intermedi ”, quelli che rendono umani gli umani. Aveva però quelli fondamentali, innanzitutto una straordinaria generosità intellettuale, nessun interesse a che le idee portassero la sua firma, basta che circolassero. E una grande capacità di autocritica. Fra gli scritti che abbiamo scelto per il libro c’è la relazione che tenne ad un seminario del Pdup a Bellaria,alla fine del 1977. Si intitola “Le ragioni di una sconfitta” e vi si affronta con coraggio, di nuovo con anticipazione, il tema della fine del lungo, decennale ’68 italiano. È una analisi molto lucida degli errori altrui ma anche nostri.

Se penso al fatto che il grande Pci è stato sciolto senza una seria riflessione critica sulla sua storia (la sola, peraltro, è stata scritta da Lucio Magri stesso, ne “Il sarto di Ulm”, pubblicato tre anni fa) ; e che tante pur importanti formazioni della Nuova Sinistra, penso in particolare a Lotta Continua, si sono dissolte senza parole, così come nessuno sembra ancora aver riflettuto sulle scissioni e controscissioni di Rifondazione Comunista, se non per scambiarsi delle accuse, credo che quel\la relazione di Bellaria valga davvero la pena di rileggerla.

Si è detto che Magri era un uomo di un altro tempo, del ‘900. Per il peso,la centralità che dava alla politica. Per la sua convinzione dell’importanza del partito come intellettuale collettivo, la forma più avanzata e moderna della democrazia. È vero. Ma in un tempo in cui la politica sembra diventata solo generico antagonismo o declamazione di identità; in cui si è perso l’impegno a costruire una comune visione del mondo; a procedere ad una realistica analisi del reale; a valutare i rapporti di forza per ragionare davvero su come cambiarli e non invece esser sempre più autoreferenziali, incapaci di incidere davvero sul presente e al tempo stesso a nutrire di uno sguardo lungo il proprio che fare; nel momento in cui i partiti sembrano solo intenti a inseguire il consenso anziché proporre una risposta alla domanda di senso, c’è da riflettere se quel che era la politica nel ‘900 non sia tanto più moderna dello spettacolo attuale.

Non si tratta di ripetere modelli ormai irripetibili, ogni stagione deve inventare. Ma a quelli che dicono – parecchi oggi, purtroppo - che “bisogna liberarsi della cultura del 900”, e che questa sarebbe la premessa per dar vita a nuove formazioni politiche, vorrei consigliare di leggere questo libro. Il passato è passato, ma – per citare Giorgio Agamben – se si vuole capire il presente c’è bisogno dell’a r c h eo l ogia non della futorologia. Difficile costruire nuovi edifici se non si è capito e riflettuto – certo criticamente- sulla storia.

 

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