di Damiano Beltrami

«Il prossimo anno trasferiremo parte della produzione di computer Mac negli Stati Uniti. Da tempo lavoriamo al progetto, adesso ci siamo quasi. Il cambiamento si materializzerà nel 2013. Ne siamo già molto orgogliosi. Lo avremmo potuto fare più velocemente prevedendo solo l’assemblaggio di una linea di Mac negli Stati Uniti, ma abbiamo lanciato un’operazione di più ampio respiro, più radicale. Investiremo 100 milioni di dollari».

A parlare, in un’intervista pubblicata sull’ultimo numero di Bloomberg Businessweek, è Tim Cook, l’erede di Steve Jobs alla guida della Apple, un’azienda che impiega 598.500 persone negli Stati Uniti (di cui 307.250 in modo diretto e altri 291.250 nell’industria delle applicazioni). E in Cina ha il doppio di impiegati, oltre un milione e 200mila lavoratori.

Al momento, quella di Cook appare più una mossa per ingraziarsi i clienti, piuttosto che l’inizio di un graduale trasferimento della produzione dell’azienda dalla Cina agli Stati Uniti. Per questo tipo di piano servirebbe un investimento sideralmente diverso rispetto a quello annunciato. La mossa di Cook in fondo riguarda appena una linea di computer, quando ormai la parte del leone del fatturato di Apple è costituita dalla vendita di iPhone e iPad. E come ci ha spiegato Jeffrey Wu, analista alla IHS iSuppli, «non è inedito che le aziende di computer e affini spostino parte della loro produzione, spesso i dispositivi voluminosi, il più vicino possibile ai clienti, per accorciare i tempi di trasporto e di consegna».

La decisione di Apple, però, rinforza un trend, quello dell’insourcing, che si è delineato negli ultimi anni, e ha subito un cambio di passo negli ultimi mesi. Sempre più aziende americane, soprattutto manifatturiere, hanno deciso che, tutto sommato, per alcuni prodotti, conviene tornare all’ovile.

Un esempio emblematico, messo recentemente in risalto dal magazine Atlantic Monthly, è Appliance Park, un’azienda di elettrodomestici controllata da General Electric (GE). Aperta nel 1951 a Louisville in Kentucky, quattro anni dopo contava già 16mila operai. Negli anni ‘60 sfornava 60mila elettrodomestici al mese alimentando l’economia di consumo americana. Appliance Park raggiunse il momento d’oro nel 1973. Ben 23mila operai si alternavano alle varie linee di produzione. A quei tempi il parcheggio della fabbrica aveva perfino semafori per regolare il supertraffico tra un turno e l’altro. Poi, lentamente, è andato in scena il declino. Fino all’ultima crisi, quella del 2008, quando l’amministratore delegato di GE, Jeffrey Immelt, ha cercato di venderla. Senza fortuna, perché non si è presentato alcun acquirente. Dopo vent’anni di gloria e quaranta di frustrazioni, nel 2011 Appliance Park con appena 1.863 sopravvissuti in servizio, versava in uno stato comatoso. Ma ecco il colpo di scena: lo scorso 10 febbraio Appliance Park ha fatto partire una nuova linea di produzione, la prima dopo 55 anni. Obiettivo: costruire scaldabagni a basso consumo, un prodotto che negli anni precedenti GE faceva realizzare in Cina. Un mese dopo, il secondo miracolo. Altra linea di prodotti. Questa volta per confezionare frigoriferi high-tech, compito da anni appaltato in Messico. E per i già sbigottiti operai della Appliance Park è perfino arrivato un regalo natalizio: a inizio 2013 verrà avviata la produzione di un terzo elettrodomestico, una lavatrice-asciugatrice.

Operai e famiglie di Louisville si interrogano retoricamente sui motivi di questa conversione tanto tardiva al “made in America”. Perché lasciar arrugginire per anni gli stabilimenti americani - e con loro il futuro degli operai e delle loro famiglie - con la strategia del conveniente outsourcing per poi rinnegarla e tornare all’antico?

«L’outsourcing», ha detto laconico l’amministratore delegato di GE Immelt all’Atlantic, «sta diventando un modello di business obsoleto per gli elettrodomestici di GE».

A ben guardare, le ragioni di questa obsolescenza dell’outsourcing a favore di una virata verso l’insourcing sono numerose. Primo, il prezzo del petrolio dal 2000 a oggi è triplicato, e ha reso il trasporto via cargo molto meno vantaggioso che in passato. Secondo, la rivoluzione nell’estrazione dei gas naturali negli Stati Uniti ha fatto sì che le bollette dell’elettricità delle fabbriche americane siano più abbordabili (mentre in Asia i gas naturali costano quattro volte di più). Terzo, dal 2000 gli stipendi in Cina si sono quintuplicati e ci si attende che continuino a crescere del 15-20% all’anno. Quarto, il costo di un operaio in America non è proibitivo, se rapportato per esempio a lavoratori in Paesi come Germania, Francia o Giappone. E questo perché i sindacati si sono indeboliti: negli anni ‘70 e ‘80 Louisville era soprannominata “Strike City”, la città degli scioperi; invece nel 2005 ha firmato un accordo con il quale ben il 70% della forza lavoro si accontenta di salari da 13 dollari e 50 centesimi all’ora.

Più in generale, GE si è accorta che a far le cose in casa si risparmia perché ci si rende conto degli sprechi in modo più immediato. Per anni progettavano scaldabagni, per esempio, che poi venivano assemblati in Cina e con il tempo si erano dimenticati di controllare se il design pensato negli Stati Uniti era funzionale al momento della realizzazione. Creando il prodotto dalla A alla Z in Kentucky hanno ottimizzato il design riducendo tempi e costi di produzione. Tanto da rendere gli scaldabagni sfornati in Kentucky vendibili a “prezzi cinesi”. Quelli prodotti in Cina sono sbarcati sul mercato al costo di 1.599 dollari, mentre quelli “made in Louisville” erano più convenienti, prezzo 1.299 dollari.

GE non è l’unica a orientarsi sull’insourcing. Lo fanno decine di altre aziende: dalla Wham-O che sposta parte della produzione di frisbee dalla Cina alla California, alla Whirlpool che trasferisce la produzione dei suoi frullatori dalla Cina all’Ohio, alla Otis (gli stabilimenti degli ascensori dal Messico fanno le valigie in direzione South Carolina).

Nancy Lazar, co-autrice di uno studio di ISI Group, un centro di ricerca per investitori, parla dell’inizio del rinascimento del manifatturiero americano. “Lo vado dicendo dal 2009,” ha spiegato orgogliosa all’Atlantic. “Le aziende con produzione industriale mi dicevano che ero pazza. Perché me lo dicevano? Perché hanno passato gli ultimi 15-20 anni a costruire gli stabilimenti fuori dagli Stati Uniti. Ma adesso quell’epoca è finita”.

 

linkiesta.it

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