di Marco Sferini

Mentre l’Unione europea calcola il tasso di disoccupazione italiano e lo evidenzia come un dato in costante crescita, mentre il Fondo Monetario Internazionale mette nero su bianco in una dichiarazione al mondo intero e allo Stivale che il nostro Paese non raggiungerà il pareggio di bilancio se non nel lontano 2017, mentre si incrociano le affermazioni e le smentite sull’eliminazione dell’esenzione totale dal pagamento dei tickets sanitari per i disoccupati, l’articolo 81 della Costituzione è già modificato da alcuni giorni e nessuno sembra accorgersene.

Non le televisioni che continuano a rincorrere il massacro politico-amministrativo della Lega Nord tra case di Calderoli, barche di Maroni, dossier spia e lauree e diplomi di questo o quel leghista perduto nel pantano dell’illegalità a tutto spiano.
Non i grandi siti Internet di informazione e tanto meno i giornali più letti. Persino il quotidiano di Confindustria tratta la notizia come qualcosa di trascurabile, giusto da appuntare per fare cronaca ma niente più.
Invece, con l’introduzione nella Costituzione dell’obbligo per lo Stato del pareggio di bilancio, ci troviamo innanzi ad una vera rivoluzione politica ed economica. Ma soprattutto politica. Perché se l’Italia non può più indebitarsi, ovviamente fornendo le dovute garanzie di copertura del debito a chi le presta il denaro, è chiaro che gli organismi preposti al controllo dei conti dovranno trattare la Repubblica come un’azienda.
Siamo dunque oltre Keynes e anche oltre la curva di Laffer e quell’esperimento reaganista che portò, se non ricordo male, ad una esplosione di debito pubblico dovuta alla riduzione drastica della tassazione (che per Keynes è uno dei due parametri su cui calcolare il deficit, visto che l’altro è la spesa pubblica) e all’insostenibile contenimento della spesa statale che divenne un flagello laddove invece si poteva controllare il tutto cercando di bilanciare con un equilibrio patrimonialistico della stessa imposizione fiscale.
Ma se allora negli Stati Uniti i repubblicani non avevano nemmeno lontanamente immaginato di introdurre una tassa patrimoniale per distribuire il carico fiscale in modo tendenzialmente proporzionale al reddito di ciascun cittadino, oggi questa proposta, che avrebbe potuto evitare tranquillamente l’introduzione di una misura come il pareggio di bilancio dello Stato nella Costituzione, viene bocciata perché sovvertirebbe la legge (im)morale del capitale e del grande azionariato politico ed economico transalpino ed europeo che sostiene Monti e la sua grande coalizione.
Gli obblighi con la Banca Centrale Europea ci avrebbero sostanzialmente imposto una misura drastica e una legislazione in tal senso. Questa è la giustificazione che viene addotta per la modificazione operata all’articolo 81 della Carta del 1948. In realtà siamo davanti ad una regressione pesantissima di sovranità della Repubblica in tema di gestione delle proprie risorse pubbliche, quindi del proprio assetto monetario e finanziario.
E il problema non è tanto se uscire o rimanere nella “zona Euro”. Il problema sta nell’uso che si fa dell’Euro, che al pari della Lira, resta una moneta e quindi un feticcio che viene condizionato esclusivamente dal valore che le viene attribuito attraverso lo scambio.
Siamo in un regime politico ed economico, trasversalmente sostenuto da forze di destra, centro e di pseudo-sinistra (quindi da formazioni di ispirazione liberale e liberista), che intende la moneta come ricchezza privata e non anche come elemento di ricchezza pubblica. A questa ricchezza privata, questo grande asse di potere fatto di governi e banche nazionali e internazionali dedica tutte le sue energie e se avevamo considerato terribile la riforma della Costituzione che voleva fare il governo Berlusconi e che venne bocciata da un referendum, non possiamo oggi non considerare abnormemente terribile la filosofia politica che entra nella suprema Carta con la modifica dell’ormai celeberrimo articolo 81.
Tutti i bisogni pubblici sono piegati a questa logica di sanamento obbligatorio dei conti pubblici, pena le sanzioni internazionali e la mannaia dell’isolamento economico da parte dei più grandi centri di gestione del capitalismo internazionale.
Abbiamo sempre considerato il debito pubblico una iattura. E lo è. Uno Stato in cui tutti pagassero le tasse e in cui vi fosse un regime governativo veramente dedito all’interesse pubblico il disavanzo economico dovrebbe essere poca cosa, comunque non così debilitante per la struttura complessa e complessiva della Repubblica. E quindi non dovrebbe avere ripercussioni sulla vita dei cittadini, né inflattive né di carattere impositivo mediante aggiunte di tassazioni speciali.
Invece una mancata vera politica di lotta ai grandi speculatori, ai grandissimi evasori, che – ce lo possiamo garantire a vicenda tutte e tutti noi che imprenditori non siamo – sono rintracciabili spesso e volentieri tra i più grandi gruppi aziendali del Paese e tra capannelli di professionisti soprattutto dell’evasione o dell’elusione fiscale (scelte a piacere o condivise sempre a piacere), una mancata lotta di questo tipo ha fatto crescere vertiginosamente il debito dello Stato che è stato ingrossato anche dai prestiti fatti proprio alle aziende considerate centrali nell’economia complessiva della realtà italiana e che si sono arricchite proprio speculando sulle risorse pubbliche.
E ora, non volendo sentir parlare di patrimoniale o di ricorso a tassazioni anche solo modeste dei loro capitali, hanno messo a guardia dei loro profitti un governo benedetto e voluto dalla BCE e dal Quirinale che mette la pietra tombale sulla libertà politica del Paese.
Quando si tratta come un’azienda un intera nazione, le si mette al collo la corda della ciclica criticità dei mercati e, a seconda delle crisi, questo nodo scorsoio rischia di stringersi tanto da soffocare noi tutti.
Berlusconi era la manifesta pericolosità per la democrazia repubblicana e per il mantenimento dei princìpi costituzionali. Mario Monti e il suo governo sono l’esecuzione di quel pericolo. La libertà non muore soltanto quando si censura la satira o si chiude un giornale o si bruciano dei libri; muore anche quando si costringe alla povertà la maggior parte della popolazione per mantenere alto il redditometro di quell’esiguissima percentuale di ricchi che ieri hanno fatto rientrare i loro capitali con lo scudo fiscale e che oggi brindano alla modifica dell’articolo 81 della Costituzione.

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