di Romina Velchi

Con il lungo e applauditissimo discorso di insediamento all'assemblea annuale di Confindustria a Roma, è iniziata l'era Squinzi a capo degli industriali italiani. E sarà forse perché è convinto che «i tempi della tua presidenza sono stati molto duri, ma tu sai bene che i miei lo saranno anche di più» (dice rivolgendosi a Emma Marcegaglia) che Giorgio Squinzi sceglie di partire all'attacco, senza usare giri di parole e andando subito al dunque. Col governo e con il sindacato.

A Monti, il presidente di Confindustria manda a dire che «la riforma del mercato del lavoro appare meno utile alla competitività del paese e delle imprese di quanto avremmo voluto. È una riforma che modifica il sistema in più punti, ma, a nostro giudizio, non sempre in modo convincente». E vale forse la pena sottolineare che mai, nel suo lungo discorso, Squinzi pronuncia le parole «articolo 18»: d'altra parte l'ha detto molte volte di non considerare una priorità la modifica dell'articolo 18.
Altre sono per lui le priorità. Innanzitutto «la madre di tutte le riforme» è quella della Pubblica amministrazione: «È la riforma che insieme alla semplificazione normativa più ci può aiutare a tornare a crescere», ciò che per il presidente degli industriali deve diventare una vera «ossessione», perché secondo Squinzi, «la bassa crescita dell'Italia è determinata soprattutto dalla difficoltà di fare impresa». «La crisi esplosa negli Usa nel 2007 - argomenta Squinzi - ha prodotto danni più gravi in Italia che nella maggioranza degli altri paesi», provocando «un'emorragia» che si «misura con le decine di migliaia di imprese che non sono sopravvissute alla crisi; si misura con i due milioni e 500mila persone che non trovano lavoro. Dobbiamo fermare questa emorragia».
Gli industriali, attacca Squinzi, non chiedono «favori o privilegi; non chiediamo la luna, ma solo certezze» per «investire le nostre risorse». E siccome «lavorare per le nostre imprese significa lavorare anche per una comunità, per il paese, per la società italiana», occorre che lo Stato (e le banche) ci mettano i soldi: «Subito credito alle imprese; alle banche e allo Stato chiediamo uno sforzo aggiuntivo», anche con il ricorso alla Cassa depositi e prestiti, mentre gli istituti di credito dovrebbero finanziare le imprese con i soldi a buon mercato ricevuti dalla Bce.
Negativo il giudizio di Squinzi anche per quanto riguarda l'azione del governo in materia di taglio della spesa pubblica: la spending review, è una «bella analisi dei tagli possibili»; al contrario «servono tagli veri» ammonisce il presidente di Confindustria, che per la gioia della platea dell'Auditorium (in sala ci sono tremila imprenditori, più il solito parterre di politici, ministri ed ex, sindacalisti ecc) va giù duro (come si conviene ad un presidente di Confindustria) contro le tasse: «Il fisco è in Italia una zavorra intollerabile - scandisce - che si aggiunge ad altre zavorre». Secondo Squinzi, «i proventi della lotta all'evasione devono essere utilizzati per ridurre la pressione fiscale su chi produce ricchezza, ossia sul lavoro e sull'impresa. Per questo diciamo no a nuovi balzelli o a tasse fantasiose che creerebbero solo incertezza e sfiducia».
Dunque questi sono i quattro punti sui quali il capo degli industriali chiede subito un confronto con il governo: riforma e debiti della Pubblica amministrazione, taglio della spesa pubblica, riduzione della pressione fiscale e credito alle imprese. Mentre, a quanto pare, gli industriali non hanno nulla da rimproverarsi se l'Italia va peggio degli altri paesi, le colpe sono tutte esterne al mondo imprenditoriale. Nessun mea culpa da parte di Squinzi, il quale si limita a esortare gli industriali a «non arrendersi mai». E non si azzardino governo e sindacati a imporre «per legge la cogestione e codecisione» in fabbrica da parte dei lavoratori: «Voglio dire con chiarezza che siamo assolutamente contrari». Mentre quel che ci vuole, manco a dirlo, è «dare attuazione all'accordo del 28 giugno»; avviare il «doppio livello di contrattazione, nazionale e aziendale»; «ridurre il numero dei contratti di categoria e semplificarne i contenuti».


 

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