di Emiliano Brancaccio
Al di là delle rettifiche e delle smentite, Beppe Grillo e Silvio Berlusconi non stanno affatto scherzando. Le loro ormai numerose esternazioni contro la moneta unica hanno una logica: misurare di volta in volta la dinamica dei consensi intorno alla opzione di un’uscita dell’Italia dalla zona euro. I riscontri in effetti sembrano difficilmente equivocabili: da mesi cresce il numero dei cittadini che guarderebbe con favore l’opzione di un ritorno alla moneta nazionale.
Non appare dunque molto tempestiva la presa di posizione dell’economista Giacomo Vaciago e dei vari opinionisti che ancora si ostinano a liquidare le proposte di uscita dall’euro con delle battute irridenti. Vaciago sa che il rischio di uno sfascio dell’Unione monetaria europea è concreto, e può evincersi anche dall’andamento degli spreads. Il tempo in cui si poteva ridurlo al rango di mera boutade è dunque passato da un pezzo.
Del resto, sappiamo bene che un maquillage non salverebbe la moneta unica. Dalla Lettera degli economisti del giugno 2010 al Manifesto per l’Europa del Sole 24 Ore, pur nelle diversità che le contraddistinguono, tutte le proposte di riassetto dell’Unione che possano dirsi dotate di un minimo di senso logico richiederebbero una riforma tutt’altro che trascurabile dei Trattati europei. Ma le condizioni per mettervi mano matureranno in tempo utile? In questo momento, rispondere affermativamente appare francamente un azzardo.
Nel libro L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa, abbiamo allora cercato di fornire argomenti a sostegno dell’idea che bisogna a questo punto ragionare su due livelli. Ossia, a livello europeo occorre rimarcare l’opportunità di una riforma dei Trattati finalizzata a quella che Reinhart e Rogoff definiscono “repressione” dei mercati finanziari, e alla istituzione di meccanismi europei di pianificazione degli investimenti e di coordinamento della contrattazione salariale. Ma al tempo stesso occorre pure iniziare a definire i termini di una eventuale opzione di uscita dall’euro, mettendo in chiaro che se salta la moneta unica potrebbe saltare anche il mercato unico.
Perché il punto politico è esattamente questo: c’è modo e modo di abbandonare l’euro. Il modo concepibile da Berlusconi e dal coacervo di macro e micro interessi proprietari che lui o altri potrebbero cercare di ricomporre non è troppo difficile da intuire: massiccia svalutazione, totale libertà di fuga dei capitali all’estero, crollo della quota salari sul Prodotto interno lordo, colpo di grazia a quel che resta del sindacato, lotta feroce all’immigrazione. Non sarebbe del tutto inappropriato definirla una variante estrema, al limite vagamente fascistizzata, dell’uscita dallo SME del 1992.
Tuttavia, è bene chiarirlo: questo non è affatto l’unico modo in cui l’uscita dall’euro potrebbe realizzarsi. Nel corso della Storia sono state poste in essere diverse procedure di sganciamento dai regimi di cambi fissi e di libera circolazione di capitali e merci, l’ultima delle quali in Argentina, con diversi limiti e qualche ombra, ma anche con varie luci. La questione chiave, comunque, è che ogni procedura tende a salvaguardare alcuni interessi sociali e a sacrificarne altri: lavoratori subordinati, piccoli o grandi imprenditori, rentiers, capitali esteri o nazionali, eccetera, secondo vari tipi di combinazioni possibili.
La domanda che allora sarebbe il caso di formulare è la seguente: quale tipo di sganciamento avrebbe in mente Grillo? E, se la situazione precipitasse e la soluzione europea tardasse a giungere, cosa farebbero Bersani e Fassina? E Di Pietro, Vendola e Ferrero? Sarebbero in grado di formulare una opzione di uscita definibile “di sinistra” o si farebbero travolgere dai rulli compressori di un montante anti-europeismo di destra?
Chi ancora reputa la domanda prematura sembra trascurare un fatto politico evidente: una posizione di maggior forza in sede europea la si conquista anche avendo idee chiare circa i termini di una eventuale strategia di uscita dall’Unione.