di Raffaella Cosentino e Alessio Genovese

Alla fine dell'autostrada Palermo-Trapani, nascosto dalle siepi, c'è il nuovo centro di identificazione ed espulsione (Cie) di contrada Milo a Trapani. Inaugurato a luglio 2011 questo centro, al contrario di molti altri ricavati in edifici come ex ospizi o comunità per tossicodipendenti, è stato progettato e costruito per essere un Cie modello.

La struttura è praticamente inaccessibile dall'esterno e si trova lontano dal centro abitato. Una torre centrale domina i cinque settori in cui si divide, alti cancelli color giallo canarino separano le aree. Il modo in cui è stato realizzato fa pensare all'occhio del sorvegliante che penetra la vita dei sorvegliati costantemente, con l'intento di rendere la permanenza una punizione esemplare. Un Panopticon di ultima generazione pensato per la detenzione amministrativa, il carcere perfetto  ideato dal filosofo inglese Jeremy Bentham che lo definì "un nuovo modo per ottenere potere mentale sulla mente, in maniera e in quantità mai vista prima". Oggi che il centro è aperto quel progetto sembra fallito del tutto.

I reclusi rifiutano di scontare una pena ingiusta, prolungabile fino a diciotto mesi. L'unico modo che hanno di opporsi è quello di ribellarsi e tentare di scappare dalla gabbia. Le barriere architettoniche interposte tra loro e il mondo esterno non servono a fermali. Abbiamo visto come idranti e lacrimogeni vengono utilizzati per contrastarli, ma anche quelli non bastano. I più giovani si arrampicano sul recinto, mentre alcuni tengono impegnati gli agenti altri saltano dall'altro lato e si danno alla macchia. Spesso li si vede correre sull'autostrada, camminano per giorni prima di trovare un centro abitato. Circa una settimana fa sono scappati in centodiciotto. A detta dei finanzieri di guardia, è stata una notte "intensa" quella. Ma non tutti hanno l'energia per tentare la fuga. Qui dentro finiscono anche padri di famiglia, persone in età da pensione, residenti in Italia da decenni e che sono in attesa del rinnovo del permesso di soggiorno.

E' il caso di Klay Aleya, nato in Tunisia nel 1962 e arrivato regolarmente in Italia nel lontano1988. Gli hanno contestato l'ingresso illegale nel 2010 ma lui è residente a Nettuno, dal suo arrivo ha sempre lavorato come pittore edile. Klay è per giunta sposato e convive con una cittadina europea dal 2001. Nel 2009 ha fatto richiesta di rinnovo del permesso presentando tutti i documenti necessari. Ma la macchina burocratica per lui si è inceppata, ad oggi aspetta ancora una risposta. E' stato fermato e portato al Cie di Ponte Galeria a Roma per poi essere trasferito nel nuovo Cie di Trapani. Il suo avvocato, Serena Lauri, ha presentato ricorso contro il decreto di espulsione, nel frattempo l'unico modo che abbiamo per parlare con lui è da dietro le sbarre. Le stesse sbarre che lo tengono lontano dalla moglie e dal lavoro.

Poi ci sono i casi impossibili da rimpatriare. Quelli che i consoli non riconoscono. Nel Cie di Trapani molti reclusi hanno fatto la spola diverse volte con l'aeroporto di Palermo, dove il console tunisino dovrebbe fare il riconoscimento 'sotto bordo'. Ma la Tunisia non è obbligata a riprendersi tutti. A quanto pare, gli accordi bilaterali prevedono il rimpatrio di chi è arrivato irregolarmente dopo il 5 aprile 2011. Chi è in Italia da molti anni e soprattutto chi ha scontato anni di carcere per reati come lo spaccio di droga, difficilmente ottiene il nulla osta del consolato per essere riportato indietro. Tutte persone che prima o poi verranno rilasciate per scadenza dei termini, dopo aver scontato per diciotto mesi un castigo senza delitto. Un signore croato di sessantuno anni ci racconta di essere un disertore. Lui i documenti non li ha mai potuti fare per paura di essere rintracciato. All'epoca era scappato da un paese in guerra, se fosse rimasto avrebbe dovuto prendere parte al conflitto che ha devastato l'ex Jugoslavia tra il  '91 e il '95. Da allora si nasconde in Italia, per il suo paese lui è una persona morta. Per l'anagrafe non esiste più.

Mohammed invece ha fatto nove anni e mezzo di carcere, viveva ad Ancona con la famiglia e sperava di tornare dalla moglie che ha un regolare permesso di soggiorno e dalla figlia, nata in Italia. Invece, il giorno in cui ha finito di scontare la pena, la polizia lo ha preso all'uscita dal penitenziario e l'ha portato fino a Trapani. Lo Stato italiano deve ancora riuscire a identificare una persona che è stata un decennio fra le sbarre. L'articolo 15 del Testo Unico sull'Immigrazione prevede che lo straniero autore di un reato venga identificato contestualmente alla reclusione in carcere. Ma questa norma non è mai applicata. E oltre la metà dei reclusi nei Cie, in qualche centro anche l'80 per cento, sono ex detenuti. Un modo semplice per tenere i centri sempre pieni. Il risultato è che nella stessa gabbia convivono onesti lavoratori, giovani migranti appena entrati illegalmente, persone nate in Italia da genitori stranieri che per qualche motivo non hanno la cittadinanza italiana e persone che hanno compiuto crimini più o meno gravi.

 

http://inchieste.repubblica.it

 

 

 

 

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