di Roberto Musacchio

Mi proverò a dire la mia divisa in tre parti.
1) Dove siamo.
Siamo nel pieno di quella che chiamerei crisi costituente. Una crisi reale, globale ed europea. Una crisi aperta a vari esiti, anche catastrofici.

Ma tra le varie ipotesi avanzate, anche nel dibattito organizzato dalla FIOM, tra cui il rischio del riproporsi delle condizioni che portarono al fascismo o quello di un crollo rovinoso dell’euro,

io penso piuttosto che quello che si sta provando a fare e’ realizzare un nuovo assetto, che definirei come tecnocrazia postdemocratica, funzionale al compromesso tra capitale finanziario e mercantile, che seppellisca definitivamente quello che e’ stato chiamato il modello sociale europeo. Che questa sia la bussola che orienta l’agire dei poteri che agiscono a cavallo tra sistema mondo ed Europa mi pare esplicito dalle loro stesse dichiarazioni. Ed anche, cosa che conta ancor più, soprattutto dai fatti. In questi due anni di crisi acuta l’Europa di cui tanti dicono che non abbia sostanza politica, ha prodotto una mole di decisioni che stanno modificando strutturalmente il suo assetto sociale e democratico. Mentre quasi tutti guardano ai conflitti tra Stati, e in particolare al ” problema tedesco “, si fa troppo poca attenzione al complessivo spostamento dei rapporti sociali che sta trasversalmente indebolendo i lavoratori e i soggetti della cittadinanza, togliendo potere alle coalizioni di lavoro e privatizzando le sfere un tempo inscritte nel welfare. Questo vale dalla Germania alla Grecia, naturalmente con gradazioni ed intensità diverse.
Analogamente quando si sottolineano le divisioni tra Governi si sottovaluta enormemente il livello di governante tecnocratica che viene realizzandosi a partire da Europlus, ora con il Fiscal Compact. Per questo si rischia di trovarsi spiazzati quando si scopre che e’ proprio la signora Merkel a indicare la strada su cui continuare questo percorso verso una cosiddetta unione federale. Ma basta guardare alle Raccomandazioni per gli obblighi di bilancio e per la crescita che la Commissione Europea ha predisposto per il Consiglio Europeo di fine luglio per vedere che si sta marciando su una road map che sicuramente sta in un terreno minato ma che ha una sua rotta. Oltre alle 27 lettere, una per Paese, sugli obblighi di bilancio da rispettare, e alle indicazioni per tutti di affidare la crescita alla liberalizzazione dei mercati del lavoro e dei servizi pubblici, si cominciano a mettere i primi tasselli per estendere l’Unione dalla politica monetaria e di bilancio verso quella di integrazione fiscale e bancaria. Sono queste, e non altre come ad esempio la europeizzazione del debito e delle politiche di sviluppo, le prossime tappe che vengono indicate. E questo perché nella riscrittura neoliberale dell’Europa alla variabile indipendente moneta si sommeranno quella bancaria e quella fiscale intese come levatrici della natura totalmente ed indiscutibilmente mercificata dei fattori produttivi e delle relazioni sociali. E magari usate anche per modulare una qualche flessibilizzazione della moneta stessa. Naturalmente tutto ciò aiuta anche gli interessi forti della Germania, ma ha un segno sociale complessivo. L’ ambito disponibile per una nuova integrazione politica èdunque quello che rafforza la governance tecnocratica ma non prevede reali interfaccia democratici. Il soggetto politico dominante di questa Europa a venire e’ il supergoverno tecnocratico, con nuove figure come quella di un ministero fiscale, ma fuori dal vecchio assioma liberale del ” no taxation without rappresentation “. Al contrario si pensa di sostenere il governo con una elezione diretta senza che vi sia un Parlamento Europeo che venga lui si eletto a suffragio europeo generale e che abbia poteri legislativi e di elezione del governo stesso. Naturalmente questa strada non e’ certo una tranquilla gita di campagna ed e’ esposta alle tensioni formidabili che si registrano nel sistema mondo e nel sistema Europa. Ed e’ sottoposta anche alle tensioni sociali che sono ancora capaci di provare ad influire sul corso degli eventi.
2) Da dove veniamo.
La domanda si pone a questo punto come necessaria a capire proprio perché le sofferenze sociali di quei mondi, quello del lavoro e della cittadinanza, che tanto hanno influito nel costruire il modello sociale europeo, non riescano ad alimentare una possibile alternativa. Su questa domanda cruciale la rimozione rischia di essere drammatica. Si parla di una fase storica a dominio politico e culturale delle destre capaci di sfruttare la forza della globalizzazione quasi come se le sinistre di questa fase siano state semplici spettatrici. Naturalmente parlo in particolare di quelle europee e tra loro della prevalente quella socialista. Quella che ha considerato la globalizzazione una occasione ponendosene al servizio e che ha partecipato in prima persona alla edificazione dell’Europa a modello neoliberale. Non si tratta qui di voler colpevolizzare qualcuno ma di essere coscienti della realtà dei processi storici che ci sono stati. Ne ce la si può cavare gettando la croce sugli uomini della cosiddetta terza via blairiana. Fu il governo Mitterand, dopo la rottura con i comunisti, a dare il via libera alla liberalizzazione dei mercati finanziari che anticipò quella di Clinton. E fu Delors, che di Mitterand era stato  ministro delle finanze, a portarla a livello della UE della cui Commissione era diventato Presidente. All’ epoca dell’avvio della UE nelle sue forme attuali poi erano 13 su 15 i governi di centrosinistra in carica. E uomini del socialismo europeo hanno fatto girare tante volte quelle porte scorrevoli tra politica, finanza e tecnocrazia di cui ci parla Luciano Gallino nella sua lucidissime descrizione del Finanzcapitalismo. E, per venire alla nostra Italia, parlare di 20 anni di berlusconismo può servire a definire una egemonia ma non può far dimenticare che per metà di quel tempo ci sono stati governi imperniati sulla presenza delle forza che fanno riferimento al socialismo europeo. Fossero stati anche tutti passaggi necessitati, come qualcuno tende a dire, io penso che non si possa sfuggire alla domanda chiave del perché non si e’ stati in grado di fare altro. Altrimenti mi pare possibile che, alla fine e nonostante qualche nuovo successo, accada al socialismo europeo quello che e’ successo ai partiti del socialismo reale, cioè di scomparire insieme al soggetto della loro esistenza, allora i regimi qui l’Europa democratica.
3) Dove andiamo.
La domanda non può che vivere nell’ansia dei tempi nostri ma richiede anche la ricerca di una risposta che sia all’altezza. Se nella crisi sta operando una volontà costituente di un’Europa che sia fuori del proprio modello sociale storico, direi americanizzata ma con tratti tecnocratici e post democratici che esulano da quella stessa realtà, la risposta non può che essere un diverso ed opposto processo costituente. Un processo costituente del Demos e della Democrazia europea, quello che le sinistre europee non hanno saputo fare rimanendo sia confinata nell’alveo nazionalistico, ancor più che nazionale, ed irretite da una globalizzazione agita dai soggetti sociali antagonisti a quelli da loro rappresentati un tempo e non più nella nuova dimensione. Il compromesso tra i due percorsi appare fuori dall’ordine delle cose che non danno nessuno spazio alla rievocazione di ciò che si fece all’indomani della seconda guerra mondiale. Uno spazio può riaprirsi solo se avviene nella rottura dello scenario. Per questo la vicenda, e il voto, greco sono diventati così importanti. Mai come oggi l’espressione democratica di una alternativa reale non deve essere concepibile o, se lo diventa, deve essere nullificata. Ma se resiste può ridare luce a molti. Perché indica la strada della reazione al TINA, there is not alternative, di cui si nutre il nuovo leviatano. Guardare alla Grecia serve ad Hollande se vuole provare ad esistere fuori dalla vecchia sussunzione del socialismo europeo di cui ho detto. E serve a noi, in Italia. Eugenio Scalfari ha nuovamente detto con grande forza su Repubblica di domenica 10 giugno che la strada in Italia non può che essere Monti e la continuità con le sue politiche che sono parte di quel processo costituente dell’Europa tecnocratica di cui ho parlato. E il Fiscal Compact per l’Italia, data la dimensione del debito, ha la stessa valenza del Memorandum in Grecia. Questa è la Terza Repubblica che viene auspicata. Ed ampiamente evocata dalla seconda che ha iperfetato il governismo e destrutturato le rappresentanze democratiche. Di questa Seconda Repubblica il centro sinistra e’ stato un protagonista, subalterno ma effettivo. Pensare di traghettarlo nella terza e’ ancor più che sbagliato, insensato. Ciò che rimane di quella esperienza a me pare di stare ormai tra la crepuscolari della dissolvenza e la sussunzione nella versione tecnocratica della Terza Repubblica. Se si vuole ricostruire una speranza di alternativa non si può che agire in rottura dello schema dominante. Democrazia contro tecnocrazia. Nuova coalizione del Lavoro e nuova Alleanza tra Lavoro e Beni Comuni contro l’accordo tra capitale finanziario e manifatturiero. Il campo di azione e’ l’Europa, lo scenario il Mondo. Senza questa rottura ogni idea di Governo è puro avventurismo. Ma la Grecia ci dice che il governo può tornare ad essere reale quasi d’improvviso.
Non spetta a chi scrive di cimentarsi in soluzioni, ma in desideri si. Cosa vorrei? Che provassimo tutte e tutti a far vivere, tutti insieme e fuori da ogni logica di vecchia appartenenza, le piattaforme della FIOM e dei movimenti dei Beni Comuni. E ne facessimo la ” Nostra Rappresentanza ” e la nostra ” Alternativa “.

 

 

 

 

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