di Vittorio Macrì
Un rientro amaro in Sardegna quello dei 450 operai dell’Alcoa che ieri per l’ennesima volta hanno portato a Roma, sotto i palazzi del potere centrale, la rabbia e la disperazione di un intero territorio, il Sulcis. Ancora stamane con l’occupazione di alcune ore del traghetto che li ha riportati in Sardegna e con alcune manifestazioni in programma nella serata a Cagliari, vogliono mandare un chiaro messaggio: la battaglia non è finita, la rassegnazione non prevale, l’incapacità del governo ad affrontare la situazione e risolvere positivamente la vertenza non scoraggia. Sarà l’assemblea di tutti i lavoratori a stabilire le prossime azioni di lotta quotidiane.
Il rallentamento, stabilito ieri al Mise, dello spegnimento delle celle e dunque della fermata della fabbrica, non fa altro che allontanare di quindici giorni la data stabilita a suo tempo per la fermata, un’inerzia, in pratica niente. Restano adesso cinquanta giorni utili prima della fermata. Arrivati a questo punto, salvo fattori ad oggi imprevisti, l’unica soluzione possibile, rimasta in campo, anche solo per il breve periodo, è quella di un intervento diretto da parte del governo nel rilevare l’azienda e tenerla in esercizio fino ad una eventuale ricollocazione. D’altronde la fabbrica è stata costruita e gestita per anni dall’EFIM (ex partecipazioni statali), poiché i governi dell’epoca, primi anni ’70, ritenevano l’alluminio un metallo strategico e bene primario per il Paese. Successivamente con le politiche delle privatizzazioni l’azienda fu ceduta, si susseguirono varie gestioni fino all’arrivo della multinazionale americana. Attualmente la fabbrica non è in perdita, produce meno di un quarto del fabbisogno nazionale di alluminio, il prodotto è di ottima qualità ed è l’unica azienda in Italia di produzione primaria di alluminio; il materiale del futuro a detta di molti sia per la sua duttilità che per sua caratteristica di essere riciclabile al 99,99%, un materiale utilizzato in una infinità di manufatti che sono strumento della nostra vita quotidiana e non solo, la stessa Curiosity (la sonda spaziale NASA che sta esplorando Marte) ha alcuni componenti di leghe di alluminio targato Alcoa. Allora quale è il problema? Perché chiudere lo stabilimento? Per il semplice motivo che gli azionisti di Alcoa sono insoddisfatti per il prezzo del metallo nel mercato globale; la crisi economica che il mondo occidentale attraversa ha contratto i consumi incidendo negativamente oltre che nel prezzo anche nel valore delle azioni Alcoa. La soluzione? Classica: ridurre l’offerta del metallo così da rialzarne il prezzo e favorire la ripresa del valore di borsa del titolo Alcoa! Ciò secondo i manager Alcoa si traduce nel taglio del 12% delle proprie produzioni globali chiudendo gli stabilimenti di Spagna e Italia. Poco importa, a loro, delle ricadute economico e sociali che questo comporta, a loro interessa solo ed esclusivamente il “Dio Profitto”: investo uno e voglio indietro 10!!! A poco valgono le scuse che i dirigenti Alcoa adottano per cercare di dare un’altra logica alle loro decisioni, come ad esempio i costi elevati dell’energia elettrica, poiché fino ad oggi ha goduto di un regime tariffario che gli ha consentito di pagarla allo stesso costo degli altri operatori che producono alluminio in Europa. Certo, c’è stata e continua ad esserci cecità da parte dei governi nazionali e dei governi regionali. Oltre a non darsi una politica industriale con priorità precise e investimenti programmati, hanno anche colpevolmente ritardato nella realizzazione delle opere di infrastrutturazione dell’ area industriale del Sulcis, dando l’alibi ad altre aziende a chiudere e andar via. Come ad esempio è successo con la multinazionale russa Rusal. Questa multinazionale chiudendo il proprio stabilimento a Portovesme, l’Eurallumina, (mandando a casa centinaia di operai che ancora si battono strenuamente per la sua riapertura) ha dato una mazzata alla filiera dell’alluminio, poiché era l’unica produttrice in Italia di allumina (elemento base per la produzione dell’alluminio), il cui stabilimento è separato da un recinto dall’Alcoa, che a sua volta confina con la Portovesme srl, l’unico stabilimento italiano che produce piombo zinco, di proprietà della multinazionale svizzera Glencord, una delle poche aspiranti al rilevamento di Alcoa