4bonds

di Alfonso Gianni

Riemergere dall’onda lunga del conformismo e della retorica nazionalista che hanno improntato i commenti post vertice Ue, non è facile. Eppure bisogna farlo, pena patire troppo dure delusioni quando le sirene delle magnifiche sorti e progressive delle elite economiche finanziarie europee avranno finito il loro canto. Se ne sono sentite di tutte. La contemporaneità dei campionati europei ha impastato i giudizi politici con metafore calcistiche. Così veniamo a sapere che ai Tre-Monti si sono sostituiti i Tre-Mario e persino un raffinato giornalista di lungo corso come Eugenio Scalfari non riesce a evitare di scadere nell’orrido con il doppio parallelismo Hollande come Cassano, Monti uguale a Balotelli. Leggere, per credere, i giornali di domenica. Poi ci ha pensato la nazionale di calcio spagnola e l’apertura non proprio travolgente dei mercati il lunedì mattina a raffreddare i troppo facili entusiasmi. Nel frattempo quasi nessuno si occupa dei testi scaturiti dal vertice. Invece bisogna farlo perché parole così centellinate avranno un peso sulla vita di tutti noi per anni a venire. Del resto non è una lettura così faticosa. Si può benissimo cominciare dal fondo dell’allegato al documento conclusivo del Consiglio europeo del 29 giugno, pomposamente chiamato “Patto per la crescita e l’occupazione”, dove si può leggere che “la stabilità finanziaria è un prerequisito della crescita”. E qui si chiude il sipario su tutte le illusioni e i facili entusiasmi, compreso quelli di D’Alema che vede la vittoria del centrosinistra in ogni luogo d’Europa. Per diversi motivi. Il primo è che non si dovrebbe parlare genericamente di crescita, ma precisare cosa per essa si intende, quanto benessere ambientale, sociale, occupazionale e culturale essa dovrebbe apportare per potere essere misurata positivamente. Ma possiamo riconoscere che questo è un argomento fin troppo raffinato per una circostanza così legata alla più cupa e disperata emergenza. Il secondo motivo è che, anche senza entrare nel merito della qualità di questa presunta crescita che si vorrebbe favorire, la quantità di risorse – 130 miliardi di euro – ad essa destinata appare improbabile nelle modalità di reperimento e comunque di assai modesta entità – solo l’1% del Reddito Nazionale Lordo della Ue – e di incerta destinazione. Già questo ridimensiona nella sostanza l’operazione che Hollande voleva condurre. Sapendo di avere ben pochi margini per cambiare effettivamente il fiscal compact, il nuovo presidente francese voleva almeno giustapporvi un consistente programma di crescita e di sviluppo. Ma quanto ha ottenuto rende priva di rete di protezione la troppo precipitosa dichiarazione rilasciata a margine del vertice sul fatto che, seppure non introducendo obblighi di pareggio in Costituzione, farà di tutto affinchè il Parlamento francese approvi i vincoli di bilancio. In terzo luogo perché la vera stabilità finanziaria non è stata raggiunta. L’unica cosa che avrebbe potuto garantirne le condizioni sarebbe stata la trasformazione della mission della Bce in prestatore in ultima istanza, come si conviene per una banca federale, la mutualizzazione del debito attraverso gli eurobonds e, ancor meglio, l’istituzione dei projectbonds di cui parlava Jacques Delors ormai tanti anni fa. Niente di tutto questo è avvenuto. La Merkel, da troppi entusiasti data per perdente nel confronto, su questo punto ha resistito. La stessa ironia del leader della Spd Gabriel – legata al fatto che le misure antispread comunque si configurerebbero come eurobonds mascherati – mi è parsa del tutto fuorviante e un pochino autolesionista. Infatti il meccanismo adottato prevede un intervento tutt’altro che illimitato da parte dei nuovi fondi, l’Efsf e l’Esm– retti da un sistema di governance esemplare per mancanza di trasparenza democratica – che potranno finanziare direttamente le banche, risolvendo così il problema, posto da Rajoy, dell’incremento enorme del debito spagnolo dovuto a un finanziamento che passa attraverso lo stato prima di raggiungere gli istituti di credito e spezzando il circuito perverso tra debiti bancari e statali. Ma, per quanto sia evitato l’intervento della temuta troika (formata dalla Commissione Europea, dalla Banca Centrale Europea e dal Fondo Monetario Internazionale) l’intervento non sarà automatico. Se gli stati vorranno stabilizzare il mercato dei loro titoli, quindi contenere l’incremento dello spread, dovranno esplicitamente richiedere l’intervento dei fondi e in questo caso si troveranno di fronte nuovamentela Bce, decisa, come ha già affermato il suo presidente Mario Draghi, a imporre una “stretta condizionalità” nel concederli. Inoltre la quantità di risorse mobilitabile dai fondi sarà determinata dalla quantità di soldi messi a disposizione dagli stati membri, fra i quali gli stessi che sono bisognosi d’aiuto. Anche sela Bce potrà acquistare titoli di stato sia sul mercato secondario che su quello primario, aggirando così il divieto posto a Maastricht di finanziare gli stati aderenti alla Unione monetaria, siamo molto lontani da una illimitata capacità di creazione di credito come si converrebbe ad una vera banca federale. A ciò va aggiunto il fatto che, come previsto dal punto 2 del testo conclusivo di Bruxelles, tra non molto partiranno le lettere ai vari stati membri, che, rinnovellando la famosa lettera delle Bce al governo italiano dello scorso agosto, invaderanno le competenze di bilancio dei singoli paesi. Come ha correttamente osservato un analista solitamente assai equilibrato come Marcello de Cecco, i keynesiani hanno perduto un’altra volta. Va detto non per deprimersi, ma per sapere cosa si ha di fronte: avvero altri sette anni di vacche magre, almeno. Continua la danza sul ciglio del burrone e il rischio che qualcuno dei PIIGS ci precipiti dentro, e con esso tutta l’Europa, aumenta ogni giorno che passa. Anche per la sinistra si tratta di un’altra occasione perduta. Né i socialisti francesi né i socialdemocratici tedeschi – ma la contrarietà agli eurobonds di questi ultimi assieme ai Verdi era già nota da tempo – hanno giocato il ruolo che più d’uno si attendeva. Al dunque il fiscal compact con qualche abbellimento viene trangugiato. Syriza è ancora più sola. Per quanto ci riguarda, le divisioni e le distanze interne al centrosinistra si fanno ancora più profonde e aspre. Sospinta dalla retorica nazionalista e dalla falsificazione sugli esiti reali del vertice di Bruxelles, torna ad alzarsi il vento di una mini Grosse Koalition all’italiana. Alla decisa – e abile – mossa di Casini dei giorni scorsi, fa seguito l’apertura di Fini nei confronti del Pd. Monti torna a casa da (presunto) vincitore, seppure deprivato della coppa europea. In più d’uno pensa e qualcuno lo dice : perché cambiarlo? Dal punto di vista delle classi dirigenti, delle elite europee, il ragionamento non fa una grinza. Spetta alla sinistra che vuole una reale alternativa dire di no e costruire una diversa proposta politica a tutto campo.

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