disoccupati-europadi Mario Sai
Nel nostro Paese sono due i processi, che spingono in alto le percentuali della disoccupazione, a cominciare da quella giovanile: uno di lunga durata, dovuto allo sciopero del capitale che rende la nostra economia sempre meno produttiva e innovativa (ne viene che l'85% delle assunzioni hanno basso contenuto professionale oltre che essere precarie); ed uno innescato dalle politiche con cui si affronta la crisi: taglio alla spesa pubblica e compressione dei consumi. A ciò si aggiunge il sistema Fornero: allungamento dell'età pensionabile ed accorciamento della durata degli ammortizzatori sociali, di cui gli esodati sono la prima conseguenza.
La risposta del Ministro a tutto ciò, se avesse avuto i fondi, sarebbe stato un reddito minimo garantito, giustificato con la difficile condizione giovanile, di fatto per arginare il prevedibile aumento della disoccupazione involontaria.

L'idea di affrontare la mancanza di lavoro con un indennizzo monetario continua a suscitare discussione anche a sinistra (dal congresso della Linke alla polemica interna a Sel sulla sua legge di iniziativa popolare).
Va, intanto, chiarito di che cosa si parla. Il reddito minimo è una forma di sostegno economico a chi rimane escluso dai sussidi collegati all'aver svolto per un periodo di tempo attività lavorative. L'emergenza sociale connessa alla disoccupazione ed alla precarizzazione crescente, in particolare dei giovani, ha portato una parte della cultura di sinistra a pensare che per assicurare una vita degna alle persone più colpite da insicurezze e impoverimento servisse la garanzia di un reddito come condizione di democrazia e libertà.
Coloro che con più forza sostengono questa prospettiva (sono in larga misura i post-operaisti ed il loro testo di riferimento è Impero di Hardt e Negri) parlano di «reddito di base» o «reddito di cittadinanza» come nuovo diritto universale e incondizionato da garantire a tutti, senza riguardo per la loro situazione economica e la loro disponibilità a lavorare. Il reddito di cittadinanza è l'idea forte da proporre a quell'area di lavoro autonomo e precario da costituire in "Quinto Stato". La prospettiva è quella di un ritorno al libero lavoro delle professioni e dell'artigianato, ai commons di prima delle recinzioni, mondo distrutto dal capitalismo (e dal proletariato da esso dipendente) per cui è giusto che queste classi, che hanno goduto delle privatizzazioni dei beni comuni, ora garantiscano un indennizzo a tutti coloro che ne sono stati esclusi.
Qui sta il punto: la sostituzione dell'obiettivo della piena occupazione, con proposte che danno per scontati i processi di esclusione sociale e lavorativa, fa cambiare alla sinistra orizzonte culturale e riferimenti sociali: il lavoro autonomo dei nuovi ceti medi urbani al posto del lavoro operaio.
In questo lungo decennio si è, così, messo in moto un pericoloso processo di separazione sociale ed economica dentro il lavoro.
La disoccupazione ha portato con sé non solo povertà, crisi familiari, abbandoni scolastici, marginalità e devianza sociale, ma soprattutto perdita di senso, sia del ruolo personale che dell'appartenenza sociale. Sono cresciute chiusure corporative ed antagonismi sociali, mentre abbiamo bisogno di politiche che riunifichino garantiti e non garantiti; giovani disoccupati e pensionati; lavoratori autonomi e dipendenti. Lo può fare solo un Piano per la piena occupazione mobilitando ingenti investimenti pubblici.
Lo ha proposto Luciano Gallino: un milione di posti di lavoro con un costo di 25 miliardi. Lo propone Sbilanciamoci: una tassa patrimoniale media dello 0,46% frutterebbe 12,5 miliardi e finanzierebbe 800.000 posti di lavoro. In questo modo si possono mettere insieme investimenti pubblici; lavoro in larga misura qualificato e non utilizzato e bisogni sociali insoddisfatti: fondamentalmente una riconversione ecologica dell'economia; un vasto programma di prevenzione delle calamità naturali; progetti di cura delle persone e di cura del territorio.
In epoca di spending review e di tagli ai dipendenti pubblici ha un senso che lo Stato finanzi lavoro? Si, perché il Piano, mettendo in luce le competenze per la sua realizzazione, sfaterebbe due pregiudizi. Il primo che in Italia ci sia troppa occupazione pubblica (i circa 3.600.000 sono in percentuale molti di meno che nel Regno Unito, in Francia o in Germania); il secondo che si tratterebbe di un corpo amorfo per cui non si possono fare altro che tagli lineari. Il Piano del lavoro, invece, farebbe individuare le funzioni inutilmente burocratiche e spingerebbe a valorizzare le competenze diffuse utili.
Il lavoro (privato e pubblico, dipendente e autonomo, materiale e immateriale) deve tornare ad essere lo strumento - il dovere, dice, unico caso, la nostra Costituzione - «per concorrere al progresso materiale e spirituale della società».

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