di David Bidussa

Nel febbraio 1794 Robespierre avverte l’affanno del suo governo, sente che il Paese è in preda ai miasmi di un conflitto interno lacerante, percepisce che la partita tante volte giocata e vinta negli ultimi 16 mesi (prima con la storica battaglia di Valmy nel settembre 1792, poi nella discussione sul destino del Re di Francia, infine nella battaglia interna prima in Vandea e poi a Tolone nel 1793), non è finita. Occorre rinnovare il senso di una missione politica, insistere sul fine a cui tendere, motivare di nuovo un’opinione pubblica distratta, lacerata dalle divisioni, smarrita nelle proprie incertezze. Alla fine tiepida rispetto ai duri compiti dell’ora.

Per questo il 5 febbraio 1794 (il 17 piovono dell’Anno II, nel calendario rivoluzionario) prende la parole e tiene un lungo discorso alla Convenzione sul significato e i contenuti di una morale politica in grado di risollevare la Francia.

Si può discutere molto delle scelte concrete di Robespierre e del Comitato di Salute Pubblica. Nella dinamica che sostanza il “Terrore” ci sono scelte e motivazioni che non sono pacifiche. Ma la politica non è discussione accademica, anche quando sembra discutere di provvedimenti tecnici. Anzi proprio allora, nel momento in cui deve dismettere la retorica, essa deve essere in grado di comunicare il rischio, di porre in forma esplicita intorno a che cosa si sta scegliendo e perché, deve insistere sul fatto che ciò che si sta scegliendo è la scommessa su un futuro, mentre si rinuncia a un presente quieto, forse anche “comodo”. Una preoccupazione che in politica hanno in pochi, o che, perlomeno, è stata dimostrata da pochi.

Nella discussione su cosa fare, su come affrontarlo, spicca il ragionamento sulla qualità degli uomini chiamati a prendere decisioni e a incarnare un progetto per domani misurandosi con quelli che Robespierre chiama i “falsi rivoluzionari”, quelli che non rischiano, che si accodano, che “navigano a vista”. Una categoria di politici che non è mai venuta meno e che ancora oggi costituisce una massa di dimensioni ragguardevoli.

Robespierre non è solo quel lupo cattivo, o quel “cattivo maestro” che molti credono. È anche una grande figura tragica della politica. E per il quale la politica costituisce una sfida dove si gioca tutto se stessi. Niente a che vedere con la classe politica del Porcellum o quelli che il mondo glielo spiega la suocera. 

Maximilien Marie Isidore de Robespierre, Noi siamo qui per rinnovare la politica.

Qual è il fine a cui tendiamo? Il godimento pacifico della libertà e dell’uguaglianza, il regno di questa giustizia eterna le cui leggi sono state incise non sul marmo o sulla pietra, ma nel cuore di tutti gli uomini, persino in quello dello schiavo che le dimentica e del tiranno che le nega.

Noi vogliamo un ordine di cose dove tutte le passioni basse e crudeli siano incatenate e tutte le passioni buone e generose siano sollecitate dalle leggi; dove l’ambizione sia quella di meritare la gloria e servire la patria; dove le distinzioni nascano solo dall’eguaglianza stessa; dove il cittadino sia sottoposto al magistrato, il magistrato al popolo e il popolo alla giustizia; dove la patria assicuri il benessere di ogni individuo e ogni individuo goda con orgoglio della prosperità e della gloria della patria; Dove tutti gli animi crescano mediante la continua comunicazione dei sentimenti repubblicani e il bisogno di meritare la stima di un grande popolo; dove le arti siano ornamento della libertà che le nobilita e il commercio la fonte della ricchezza pubblica e non solo dell’opulenza mostruosa di qualche famiglia.

Noi vogliamo sostituire nel nostro paese la morale all’egoismo, l’onestà all’ostentazione dell’onore, i princípi alle consuetudini, i doveri alle cortesie formali, l’impero della ragione alla tirannia della moda, il disprezzo del vizio al disprezza della sventura, la fierezza all’insolenza, la grandezza d’animo alla vanità, l’amore della gloria all’amore del denaro, la gente buona alla buona compagnia, il merito all’intrigo, il genio al bello spirito, la verità alle apparenze vistose, il fascino della felicità alle noie della voluttà, la grandezza dell’uomo alla piccolezza dei grandi, un popolo generoso, potente,felice a un popolo amabile, frivolo e miserabile, cioè a dire tutte le virtù e tutti i miracoli della Repubblica a tutti i vizi e a tutte le ridicolaggini della monarchia..

Noi vogliamo, in una parola, adempiere i voti della natura, realizzare i destini dell’umanità, mantenere le promesse della filosofia, assolvere la provvidenza dal lungo regno del delitto e della tirannia.

(…) La democrazia non è uno stato dove il popolo, perennemente riunito in assemblea, gestisce da se stesso tutti gli affari pubblici; ancora meno quello in cui centomila frazioni di popolo, con dei provvedimenti isolati, precipitosi e contraddittorii, decidessero delle sorti della società intera; un simile governo non è mai esistito e non potrebbe esistere che per condurre il popolo stesso al dispotismo.
La democrazia è uno stato dove il popolo sovrano, guidato da leggi che sono opera sua, fa da sé tutto quello che è in grado di fare e, attraverso i suoi delegati, tutto quello che non può fare da sé.
E’ dunque nei princípi del governo democratico che dovete cercare le regole della vostra condotta politica.

(…) Ora, qual è il principio fondamentale del governo democratico o popolare, vale a dire la molla essenziale che lo sostiene e lo fa muovere? E’ la virtù: parlo della virtù pubblica che operò tanti prodigi in Grecia e in Roma e che deve produrne di ben più clamorosi nella Francia repubblicana; questa virtù che altro non è se non l’amore per la patria e per le sue leggi.
Ma poiché l’essenza della Repubblica e della democrazia è l’eguaglianza, ne segue che l’amore per la patria comprende necessariamente l’amore pr l’eguaglianza.

E’ vero, ancora, che questo sentimento sublime presuppone la priorità dell’interesse pubblico a tutti gli interessi particolari; da cui discende che l’amore per la patria presuppone, o produce, tutte le virtù. Perché, che altro sono esse se non la forza d’animo che rende capaci di tali sacrifici? Ad esempio un uomo schiavo dell’avarizia o dell’ambizione come potrebbe sacrificare i suoi idoli alla patria?
La virtù non è solamente l’anima della democrazia, ma addirittura non può esistere che in questa forma di governo. Nella monarchia, conosco un solo tipo di individuo che può amare la patria sena nessun bisogno di virtù: è il monarca, per la semplice ragione che tra tutti gli abitanti dei suoi stati, il monarca è il solo ad avere una patria. Non è forse lui il sovrano, almeno di fatto? Non sta forse lui al posto del popolo? E che cos’è la patria se non il paese dove ognuno è cittadino e partecipe della sovranità?

(…) Il falso rivoluzionario è in realtà molto spesso o al di qua o al di là della Rivoluzione: è moderato o folle di patriottismo secondo le circostanze. Si oppone alle misure energiche, ma le esagera quando non è riuscito a impedirle; è spietato verso l’innocenza, ma indulgente verso il delitto; accusa i colpevoli che non sono abbastanza ricchi per compare il suo silenzio né abbastanza importanti per meritare il suo zelo, ma si guarda bene dal compromettersi fino al punto fio difendere la virtù calunniata; Scopre, ogni tanto, dei complotti già scoperti, già decapitati, ma esalta i traditori viventi e ancora accreditati; è sempre dedito a blandire l’opinione del momento e non meno attento a non chiarirla mai, soprattutto a non opporvisi; sempre pronto ad additare delle misure ardite purché presentino molti inconvenienti e a criticare invece quelle che invece produrrebbero solo vantaggi oppure ad aggiungervi tanti emendamenti da renderle nocive; dice la verità con parsimonia e solo quanto basta per ottenere il diritto di mentite impunemente ; distilla il bene goccia a goccia e riversa il male a torrenti; pieno di fuoco per le grandi risoluzioni che non significano nulla, più che indifferente per quelle che possono onorare la causa del popolo e salvare la patria; concede molto alle forme esteriori del patriottismo, è molto attaccato, come i bigotti di cui si dichiara nemico, alle pratiche esteriori e preferirebbe mettersi in testa cento berretti rossi piuttosto che compiere una sola buona azione.

da L'Inkiesta

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