di Daniela Preziosi
Il sindaco di Firenze evoca la scissione. Bersani nega il rischio, ma i suoi non nascondono che il successo di Renzi terremoterebbe il partito.
«Divisione» mai, «scissione» per carità di dio, «noi siamo il comitato Bersani ma possiamo anche parlare come nuova classe dirigente e di divisioni non vorremmo proprio sentirne». Alessandra Moretti, la portavoce del comitato Bersani per tutti oggi da Rimini parte per il tour delle primarie, dove le capiterà di parlare al posto del candidato «sul programma e sull'Italia, senza guardare al nostro ombelico». Spiega che «dobbiamo battere il centrodestra», che verso Renzi «non diciamo una parola che non sia rispettosa e che non rafforzi il Pd» ma certo «sosteniamo Bersani perché crediamo che sia il candidato migliore per unire, e non solo il Pd ma anche il centrosinistra».
Insomma, di riffa o di raffa, qualcosa di pesantemente divisivo Renzi ce l'ha, se anche l'ecumenica - benché di origine 'turca', politicamente parlando - Moretti deve ammetterlo.
Anche perché ora la parolaccia, «scissione», dopo mesi di accuse di lavorare per il re di Prussia, di inviti a uscire dal partito (Bindi) o votare per il Pdl (D'Alema), la evoca lui, Renzi. Ieri dalle colonne di Repubblica: «Il Pd è casa mia, non ne uscirò mai, nemmeno se mi cacciano», dice. «Semmai la questione è un'altra: io prometto lealtà se perdo. Mi aspetto dal gruppo dirigente una parola di lealtà nel caso di mia vittoria, anziché agitare lo spauracchio della possibile divisione». E sì, perché D'Alema considera il sindaco di Firenze, come già definì a suo tempo Renato Soru, della famiglia degli «ammazza-partiti». E la voce della indisponibilità di qualche ex Ds a sostenere Renzi, nel caso di vittoria delle primarie, circola praticamente dall'inizio della sua avventura. C'è chi fa anche un nome «Sinistra europea», di un'eventuale nuova formazione che guarda a sinistra. Fantasie. Smentite da tutti.
Che però domenica sulla stessa Repubblica il fondatore Eugenio Scalfari rilanciava, declinandole in un'altra direzione: se i democratici andranno alle elezioni con Renzi candidato, «il Pd non si sfascerà perché se ne andrà D'Alema o Veltroni o Franceschini ma perché se ne andranno tutti quelli che fin qui hanno votato Pd come partito riformista di centrosinistra». Aggiungendo che anche lui non lo voterebbe «perché ci sarà stata una trasformazione antropologica nel Pd analoga a quella che avvenne nel Psi quando Craxi ne assunse la leadership».
L'obiezione politica è pesante. Ma tardiva. Renzi è ormai candidato alle primarie - dal 6 ottobre lo sarà anche a norma di statuto -. Ed ora anche gli ultrà bersaniani, quelli che gli hanno dato del giovane-vecchio liberista, dello sfascista e del cavallo di troia delle destre - e adesso hanno abbassato i toni solo per evitare di regalarci vantaggi mediatici - giurano che nel caso di vittoria lo sosterranno. Come spiega Matteo Orfini qui sotto. O Stefano Fassina, anche lui 'giovane turco' e responsabile economico del Pd, l'uomo che con Renzi ha intrattenuto i più pirotecnici combattimenti a mezzo stampa, secondo solo a D'Alema. «Tutti quelli che partecipano alle primarie ne dovranno poi rispettare il risultato», commenta. Che è come dire, senza dirlo, che non c'è ancora la massima fiducia sui comportamenti futuri di Renzi. O di quelli che alla spicciolata o in gruppo si stavano schierando con lui, attratti dal suo filo-montismo. Ed ora sono imbarazzati dal cambio di marcia di Renzi, che si è dichiarato pronto a governare in caso - improbabile - di vittoria, e comunque indisponibile a passare la mano all'attuale premier. E che ora sono attratti dalle sirene filomontiane delle liste centriste. Così ieri Giorgio Tonini, già braccio destro veltronianiano: «Mai come oggi avremmo la possibilità di schierare il partito su una linea riformista di governo senza neanche sfidare l'impopolarità», e invece la strategia di Bersani è un'altra: «È oggettivamente inspiegabile, come lo sono le balene che si spiaggiano».
Da parte sua, Renzi offre qualche rassicurazione: «Se perderò, darò una mano a chi è vicino a Bersani», ha chiarito ieri. «Le primarie non sono un regolamento dei conti, dove chi perde scappa. Anzi: se perdo non vado nemmeno in Parlamento. Perché è giunta l'ora di dare un segnale, concreto, importante, una svolta». Che però è come dire che se perde non farà la campagna elettorale.
Il Manifesto - 02.10.12