di Maurizio Matteuzzi
Ora, dopo la vittoria per ko di Hugo Chávez nelle elezioni presidenziali di domenica in Venezuela (vittoria numero 14 su 15 in 14 anni), la destra - venezuelana, latino-americana, internazionale - può confidare solo nel cancro.
Come la banca Barclays che in rapporto riservato di fine settembre consigliava ai suoi clienti di avere pazienza e fiducia per investire nel paese le cui riserve petrolifere hanno superato quelle dell'Arabia saudita, in quanto «anche nel caso di una vittoria di Chávez, crediamo che vista l'evidenza del suo povero stato di salute, se non adesso, il cambio politico avverrà in poco tempo». E, come spiegava domenica l'esperto di America latina Andrés Oppenheimer sul madrileno El País, «secondo la costituzione del Venezuela, se il presidente muore durante i primi quattro anni del suo mandato si devono tenere nuove elezioni entro 30 giorni.
Se Capriles non ce la fa a vincere domenica ma esce rafforzato da questo voto, avrà buone possibilità di arrivare alla presidenza prima della conclusione dei sei anni di mandato di Chávez, nel 2019».
Speranze per il futuro. Ma ieri la destra - venezuelana, latino-americana e internazionale - era in lutto. Aveva confidato che Henrique Capriles Radonski, il suo «straordinario candidato» ce la facesse a liberare il campo, per via democratico-elettorale e non golpista, dal fastidioso e chiassoso «caudillo rosso» che da quasi tre lustri disturba i manovratori con le sue iniziative eterodosse e i suoi deliri bolivarian-socialisteggianti. Confidavano molto nei sondaggi amici che all'ultimo davano i due contendenti voto a voto; confidavano che i delusi e gli indecisi - i «Ni-Ni», né con Chávez né con l'opposizione - nel segreto dell'urna e lontano dalle «intimidazioni» delle turbe chaviste si sarebbero riversati sullo «straordinario candidato» Capriles. Si sono troppo fidati dell'azzardato pronostico di Teodoro Petkoff, l'ex-guerrigliero comunista degli anni '60 passato alla destra liberista e all'anti-chavismo militante, che nel suo quotidiano Tal Cual aveva scritto alla vigilia che Capriles «vincerà le elezioni» senza «margine di errore».
Si sono fidati troppo e hanno preso lucciole per lanterne, con effetti involontariamente comici. «La hora de Capriles», titolava sul País di domenica, Mario Vargas Llosa dando (quasi) per certa la sua vittoria e lanciando l'allarme dei democratici sullo «scenario di sicura sconfitta e di possibile frode a cui il governo ricorrerebbe per cambiare il risultato delle urne».
La destra-destra e la sinistra-super light che sul Venezuela chavista e in generale la «nuova» America latina di questo inizio di ventunesimo secolo si differenzia poco o nulla dalla destra-destra (qualche esempio a caso: il Pd e la Repubblica in Italia, il Psoe e El País in Spagna...) - parlavano e descrivevano scenari bui di violenza, libertà negate, intimidazioni, frodi, possibile caos post-elettorale. Il voto di domenica in Venezuela è stato limpido e pulito, nessuna violenza, clima di «festa democratica», partecipazione record (più dell'80% dell'elettorato). Durante la campagna elettorale, come in tutte le altre 14 occasioni in cui il paese è andato alle urne, l'opposizione interna e i suoi sponsor internazionali negli Stati uniti e in Europa hanno potuto battere senza tregua (e a volte non senza ragione) e in assoluta libertà (l'80% dei giornali scritti e delle tv sono saldamente nelle loro mani nonostante le grida sulla libertà di stampa coartata) sui casi di pessima gestione e di corruzione, sulla mancanza di investimenti e l'affidamento esclusivo sulle risorse petrolifere, sull'inflazione più alta dell'America latina e l'insicurezza diffusa, sulla leadership iper-personalista di Chávez e il suo oscillare fra populismo e autoritarismo.
Ma non è riuscita, la destra interna, a far dimenticare che durante i 14 anni di Chávez la povertà si è ridotta quasi della metà, l'analfabetismo è stato azzerato, si sono estesi i servizi (casa, salute, alimentazione...) e i diritti politici, per la prima volta, alla metà storicamente esclusa della popolazione.
Quella metà abbondante che ha votato ancora una volta, domenica, per Hugo Chávez.
Per la delusione dei Petkoff, dei Vargas Llosa e degli Oppenheimer, del Pd e del Psoe, del País e della Repubblica, i «descamisados» del Venezuela forse si sono fatti abbagliare ancora una volta dal «mito Chávez» ma hanno capito benissimo chi è e chi rappresenta Capriles.
E non hanno dato ascolto all'accordato appello di Vargas Llosa che auspicava-prevedeva «la sconfitta di Chávez» come il passaggio obbligato che «non solo ridarà al Venezuela la libertà e la convivenza fra i suoi cittadini che si sono eclissate con l'ascesa al potere del comandante ex-golpista, ma libererà anche l'America latina dalla maggior minaccia che sperimenta il processo di democratizzazione politica e modernizzazione delle sue economie. Perché il comandante Chávez patisce, come il suo modello ideologico e padre putativo politico, Fidel Castro, di un delirio messianico».
Con tutti i suoi errori e limiti, Chávez potrà continuare a essere, malattia e petrolio permettendo, quel «pessimo esempio» che è stato in questi anni e a rappresentare un simbolo forte - anche se non il solo - di quel processo di emancipazione e di recupero della sovranità (e delle risorse) dell'America latina .
Il giovane e rampante Capriles, che con quasi il 45% ha ottenuto un eccellente risultato elettorale riuscendo a riunire la divisa e rissosa opposizione di destra e a toglierle di dosso (forse) le pulsioni golpiste del passato, dovrà aspettare il prossimo round.
Fra sei anni. A meno che non confidi anche lui nel cancro come la Barclays.
Il Manifesto - 09.10.12