di Gianni Rinaldini
Sono interessato alla costruzione di un nuovo spazio politico come luogo di confronto e di approfondimento sulle pratiche di movimento, sulla lettura dei processi in atto e sulle scelte da compiere per contrastare e cambiare profondamente il segno sociale, culturale e politico dell’attuale deriva. Attraversiamo tempi cupi e difficili, riassumibili nel precipitare della crisi della democrazia, di quell’impasto di rabbia, rassegnazione e impotenza, che con il crescere del disagio sociale e delle disuguaglianze sociali, può costituire la condizione materiale per gli sbocchi più imprevedibili e pericolosi. Dalla lettura del documento preparatorio di questa assemblea costituente sono rimasto perplesso per lo scarto evidente tra l’analisi innovativa sul come stare insieme in questo nuovo spazio pubblico ed il precipitare nella enunciazione finale di un nuovo soggetto politico che evoca in qualche modo la scelta di una nuova formazione politica che si aggiunge a quelle esistenti.
Una scelta che sarebbe ovviamente legittima e comprensibile, di cui per altro, mi sembrano oscuri i caratteri fondamentali. L’introduzione di Marco Revelli mi ha permesso di capire meglio il senso della proposta anche nella definizione dell’ambito della ricerca comune che ci viene proposta a partire da due punti fondamentali: la pregiudiziale antiliberista e la centralità del lavoro. Su questo voglio esprimere alcune osservazioni proprio perché interessato a questo confronto. Ci troviamo a fare i conti con un processo di assoluta radicalità che utilizza la crisi per portare a compimento lo stesso modello sociale, culturale, istituzionale e politico che ci ha portato a questa situazione devastante in tutti i Paesi di vecchia industrializzazione.Il modello in cui il liberismo, il mercato e la competitività assunti come valori assoluti a cui rendere funzionali tutti gli aspetti della società. Nella sua espressione storica il capitalismo finanziario non contempla la democrazia come partecipazione attiva delle persone, non contempla il conflitto sociale capitale-lavoro, come dinamica sociale democratica. La riduzione degli spazi democratici riguarda l’insieme della società, e affonda le proprie radici nella negazione del conflitto capitale-lavoro, considerato estinto con la storia del ’900. Non si tratta di un arretramento in attesa di tempi migliori, ma di una intensa attività legislativa e contrattuale che nega la stessa possibilità di espressione democratica della soggettività organizzata del lavoro subordinato. La condizione lavorativa viene ricondotta a una pura dimensione di merce che in quanto tale non ha voce, è intercambiabile, uno dei fattori della produzione. Le lavoratrici e i lavoratori non possono decidere e votare i loro Contratti Nazionali come se questi fossero proprietà del Parlamento e delle Organizzazioni Sindacali.Non si tratta di riproporre il passato in una situazione profondamente cambiata, ma di pensare ad una ricostruzione della democrazia e della partecipazione che affondi le proprie radici nei luoghi lavorativi, nel territorio e nella società. Il voto delle ultime amministrative e il voto referendario ci indicano la possibilità di un percorso da sviluppare, senza caricarlo di una valenza generale di un voto contro il neoliberismo. Il rapporto positivo tra sistema partecipativo e conflitto sociale deve essere l’asse centrale del nostro operare, perché ne qualifica il suo significato di trasformazione di alternativa di carattere generale. Secondo aspetto è quello relativo ai beni comuni che vengono sottratti ad una logica di mercato. La definizione di beni comuni, mi pare ancora indeterminata e credo sia ardua una definizione precisa. Nello stesso tempo c’è il rischio che tutto venga considerato bene comune, fino ad arrivare al paradossale uso propagandistico da parte di alcune forze politiche. Per questo ritengo sia necessario un approfondimento anche in termini di analisi del rapporto tra beni comuni e intervento pubblico, tra beni comuni e diritti sociali. Questo ci viene imposto dai processi di smantellamento in atto del welfare, che a ben vedere è molto più avanzato di quanto generalmente si pensa. Una dinamica sociale dove la riduzione dell’universalità dei diritti sociali (sanità – previdenza – istruzione), viene accompagnata da una progressiva corporativizzazione della società che aumenterà tutte le disuguaglianze sociali e le fasce di povertà. Il nuovo sistema previdenziale, totalmente su base contributiva, elimina qualsiasi elemento di solidarietà generale e obbliga di fatto le lavoratrici ed i lavoratori a versare una mensilità annua (T.F.R. – Trattamento di Fine Rapporto), ai Fondi Previdenziali per sperare, nel migliore dei casi, in una pensione decente.Nella sanità sono in forte aumento accordi aziendali e nazionali di categoria che sotto la dizione welfare contrattuale, utilizzano una parte della retribuzione per costruire fondi sanitari aziendali e/o di categoria.Non è diversa la situazione per quanto riguarda il diritto allo studio e alla Università che diventa difficilmente accessibile per i giovani di famiglia con reddito medio-basso. Non si tratta di demonizzare, ma di avere coscienza di ciò che sta avvenendo sul piano dei diritti sociali universali.Siamo al trasferimento in Europa della struttura delle relazioni sociali e del rapporto cittadini-istituzioni dei Paesi Anglosassoni ed in particolare degli Stati Uniti. Beni comuni – intervento pubblico – diritti sociali non possono essere confusi in un insieme indistinto, anche perché diverse sono le pratiche di movimento da costruire. Sulla base di queste brevi considerazioni, mi pare evidente l’ interesse a partecipare alle ulteriori fasi di confronto che proponete.