di Livio Pepino
L'analisi di Asor Rosa è chiara: nel nostro desolato panorama politico una riedizione del governo Monti e della sua politica può essere scongiurata solo dalla «coalizione Bersani-Vendola» che, pur nell'incognita dello stato confusionale del Pd, può essere ri-orientata a sinistra da una vittoria elettorale; in ogni caso non c'è alternativa, se non la «libidine della sconfitta» di spezzoni, vecchi e nuovi, di una sinistra presuntuosa e velleitaria. Fino a qualche anno fa avrei condiviso: del resto non sono un estremista (e se a volte appaio tale è solo per l'inarrestabile corsa a destra degli estremisti di un tempo). Ma oggi ritengo quell'analisi un errore, utile solo a mettere la pietra tombale su ogni prospettiva di cambiamento. Provo a spiegare perché.
Primo.
C'è, in Italia e nel mondo, una grande questione aperta che riguarda le politiche per uscire dalla crisi. Alcuni - la maggioranza - ritengono che la ricetta sia interna al liberismo e che non possa prescindere dalla riduzione della spesa pubblica, dall'abbattimento dello stato sociale, dalla diminuzione delle tutele del lavoro, dall'espansione del privato, dall'investimento in opere faraoniche. Altri - quel che resta della cultura di sinistra - pensano che la strada sia quella opposta, cioè, per usare le parole di Luciano Gallino, un New Deal (finanziato con il taglio delle spese militari e di quelle per le grandi opere, una imposizione fiscale equa ed efficiente, il recupero delle risorse concesse a fondo perduto alle banche) fondato su un piano di interventi pubblici finalizzati alla piena occupazione, alla razionalizzazione del welfare, al reddito di cittadinanza, alla riconversione ecologica, al riassetto del territorio e delle infrastrutture del paese, alla valorizzazione dei migranti e via elencando. Sono due prospettive inconciliabili. Il Pd, cioè il perno della coalizione invocata da Asor Rosa, ha scelto la prima, nelle parole e con i fatti: appoggiando senza se e senza ma il governo Monti, contribuendo ad approvare il fiscal compact e la modifica costituzionale sul pareggio di bilancio, avallando la riduzione delle tutele del lavoro, sostenendo le grandi opere, eludendo nei fatti l'esito referendario in favore dell'acqua pubblica eccetera. Sono scelte di tutto il partito, non scalfite da qualche isolato «mal di pancia», presto rientrato in attuazione di quella disciplina che si è deciso di estendere all'intera coalizione. Scelte legittime, ovviamente: ma per quale ragione al mondo chi non le condivide e le osteggia dovrebbe sostenerle col proprio voto? Non è questo cinismo di fronte ai contenuti che uccide la democrazia e la politica?
Secondo. Asor Rosa cerca di uscire dalla stretta osservando che l'alleanza con Vendola e un grande successo elettorale potrebbero rimescolare le carte. Su quali basi non è dato sapere e anzi, la cosa appare a dir poco difficile, anche a non considerare la variabile Renzi... La scelta del Pd è, infatti, risalente e tradotta in una pluriennale attività di governo. Lo ha ammesso persino Romano Prodi scrivendo, in un empito di sincerità, che negli anni di governo dell'Ulivo «il cambiamento della società è continuato secondo le linee precedenti: una crescente disparità nelle distribuzione dei redditi, un dominio assoluto e incontrastato del mercato, un diffuso disprezzo del ruolo dello Stato e dell'uso delle politiche fiscali, una presenza sempre più limitata degli interventi pubblici di carattere sociale» (Il Messaggero, 15 agosto 2009). Tutto questo - è bene non dimenticarlo - ha, per di più, marginalizzato l'attenzione alla «questione morale», contribuendo a trasformare la corruzione nel sistema in corruzione del sistema. Solo chiudendo gli occhi si può pensare che questa linea politica cambi nei tempi brevi e, soprattutto, sull'onda di una vittoria elettorale (che secondo ogni logica la confermerebbe).
Terzo. Arriviamo all'ultimo punto: non c'è alternativa. È questo l'errore più grave. Inutile dirlo: l'alternativa non è la riedizione di esperienze verticistiche, burocratiche e perdenti come quella della Sinistra Arcobaleno del 2008. Da allora, molte cose sono cambiate, a cominciare dall'esperienza dei referendum sull'acqua pubblica e sul nucleare del 2011 (su cui all'inizio erano in pochi a scommettere...) e dal rifiuto diffuso di assetti di potere consolidati. Oggi sono i fatti a richiedere una iniziativa politica nuova, nei contenuti e nel metodo, e intransigente (categoria lontana le mille miglia dalla presunzione). Una iniziativa che parta non da apparati ma da persone di buona volontà e che aggreghi movimenti, associazioni, singoli, amministratori di piccole e grandi città in un progetto di rinnovamento delle stesse modalità della rappresentanza. So bene che è un'operazione complicata e che, rispetto alle elezioni del prossimo aprile, siamo in ritardo. Ma qualcosa si muove (lo si è visto, per esempio, nell'incontro promosso a Torino da Alba il 6 e 7 ottobre) e - come la storia dimostra - i processi di cambiamento iniziano da piccole incrinature del pensiero unico. Comunque, la difficoltà dell'impresa non è una buona ragione per rinunciarvi. Di questo (e non di una anacronistica assemblea nazionale programmatica del Pd...) sarebbe bene discutere da domani.
Il Manifesto - 16.10.12