di Dino Greco
La guerra non dichiarata – ma vigorosamente combattutta – dal governo Monti contro il lavoro e contro la parte più debole della società continua senza battute d'arresto. Del resto, questo impone di fare – “senza se e senza ma” - il patto di stabilità, prodotto diretto del pareggio di bilancio venerato come una divinità dai sacerdoti del finanzcapitalismo e posto a forza nella Costituzione. Con buona pace dell'equità, strombazzata urbi et orbi, ma rimasta sin dall'inizio un puro esercizio retorico, privo di qualsiasi sostanza.
La nuova ondata di tagli – lo scopriamo di giorno in giorno, di aggiustamento in aggiustamento – segue una direzione sola: il welfare, il lavoro, le imposte dirette e indirette.
Il welfare: con l'amputazione di un miliardo e mezzo del fondo per la sanità che comporterà una caduta pesante del livello di assistenza ospedaliera: solo all'ultima ora la mobilitazione delle associazioni delle persone con handicap ha consentito di sventare il vergognoso assoggettamento delle miserrime pensioni di invalidità all'Irpef; il lavoro, con l'ulteriore blocco dei rinnovi contrattuali già al palo da tre anni grazie alle politiche di Berlusconi e Sacconi; l'aumento di un punto dell'Iva, che costerà alle famiglie due miliardi e mezzo di euro, trascinando un effetto inflattivo sin d'ora stimabile in quasi un punto in percentuale. Poi la nuova zampata sul prelievo fiscale, maldestramente mascherata dall'annuncio – per altro già ridimensionato – della diminuzione di un punto delle aliquote fiscali più basse. Sì, perché il combinato disposto fra questo ritocco della tassazione diretta e la riduzione secca di tutte le detrazioni farà registrare un aumento e non un alleggerimento della pressione tributaria sui redditi più bassi.
Bisogna sapere che se non fermiamo la prodigiosa escalation di quella che senza un filo di esagerazione abbiamo chiamato “macelleria sociale” questa aggressione continuerà. Ed anzi si aggraverà in ragione del patto fiscale (il famigerato Fiscal compact) che impone ulteriori tagli pari a 45 miliardi l'anno da qui ai prossimi vent'anni nell'intento di portare il rapporto debito/pil dal 125 al 60% (!!)
D'altra parte, proprio questo è scritto nei trattati europei, ai quali tanto il centrodestra quanto il centrosinistra hanno aderito senza batter ciglio. Sono questi i vincoli che il Pd, fedele interprete e domani probabile erede del monti-pensiero, si è solennemente impegnato a confermare nella cosiddetta “lettera di intenti dei progressisti”, i cui capintesta si contenderanno – rigorosamente dentro quel campo d'azione – la leadership della coalizione di centrosinistra.
E tuttavia è sin d'ora chiaro che questa sciagurata politica affama il popolo e alimenta la recessione, la crescita del debito e – conseguentemente – reclama nuovi tagli, avvitando il paese in una spirale perversa. Questa strada – sia chiaro – porta verso Atene, non verso Berlino, porta verso l'impoverimento sociale, non verso la ripresa, porta verso la definitiva crisi della democrazia e il rischio di drammatiche degenerazioni autoritarie, non verso il ripristino della sovranità popolare.