di Alessandra Scurati
Sono un’insegnante precaria abilitata, capitata quest’anno in un Istituto Comprensivo in provincia di Varese. Dico “capitata” perché il tipo di scuola in cui ho sempre insegnato (i licei) non è lo stesso in cui mi trovo ora a lavorare, la scuola secondaria di I grado (ex scuola media). Chi di scuola e di reclutamento degli insegnanti non si intende potrebbe pensare che in fondo non cambia molto, si tratta comunque di insegnare e lo stipendio è il medesimo. In realtà insegnare alle scuole superiori e lavorare alle scuole medie non è la stessa cosa, sia per la differenza d’età dei ragazzi, sia per il tipo di lavoro, più orientato all’educazione nella scuola media, più centrato sull’istruzione in quanto tale nei licei. Se fosse solo questa la differenza, per un anno mi potrei anche adeguare, sebbene le mie competenze non siano quelle necessarie a lavorare con i bambini.
Il problema più grosso è che scuole diverse fanno capo a graduatorie diverse e ciò significa che il punteggio di quest’anno di servizio non potrò farlo valere sulla mia graduatoria di riferimento, nella quale, forse, un giorno sarei passata di ruolo.
Se oggi svolgo con difficoltà un lavoro che non è il mio, sul quale non ho investito negli anni della formazione e per il quale non ho sviluppato alcuna professionalità è solo a causa dei ripetuti ed inarrestabili tagli alla scuola pubblica, operati dalla riforma Moratti prima e Gelmini poi, che hanno fatto sì che all’aumentare del mio punteggio e della posizione in graduatoria non sia corrisposto un miglioramento nelle reali possibilità di lavoro. La recente riforma della scuola superiore (nient’altro che un drastico taglio alle ore di lezione e l’aumento spropositato di alunni per classe) ha ridotto non di poco l’organico docente e i primi a perdere il posto sono stati naturalmente i precari. Se all’inizio della carriera avevo la certezza di ricevere un incarico annuale in qualche liceo (magari a più di 40 km da casa, ma non importava perché insegnare era bello…), ora che ho maturato più di 100 punti devo “accontentarmi” delle medie e ringraziare perché almeno ho un posto di lavoro.
Il mio lavoro però non è solo mio, perché è un lavoro che si riversa ogni giorno sugli alunni, che hanno diritto ad avere insegnanti formati per dialogare con loro. Io insegno letteratura, italiana e latina; all’università e alla SSIS ho dedicato la maggior parte del mio impegno all’insegnamento del testo letterario. In questi anni ho preparato ragazzi già maggiorenni all’Esame di Stato; ho insegnato a scrivere saggi e articoli di giornale; ho messo a confronto la quotidianità dei giovani con le opere letterarie; ho posto il pensiero critico al centro del mio insegnamento. Come posso all’improvviso parlare con i bambini appena usciti dalla scuola primaria? Non mi ritengo troppo brava per insegnare alle medie, dico solo che bambini e preadolescenti hanno capacità ed esigenze diverse da quelle che ho imparato a trattare.
Se fossi solo io in questa situazione, mi riterrei semplicemente sfortunata, ma con me ci sono migliaia di persone che da quando è partita la riforma devono reinventarsi una professionalità. In provincia di Varese la situazione è tale per cui persino diversi docenti di ruolo perdono il posto e i loro esuberi si riversano inevitabilmente sui miseri posti dei precari, ai quali non restano più nemmeno gli “spezzoni” di poche ore.
A questo si aggiungono nuove ingiustizie ogni giorno: da un lato l’umiliazione di dover nuovamente dimostrare, nonostante le tre abilitazioni conseguite e gli anni di servizio serio e proficuo, di meritare di svolgere questo lavoro (mi riferisco al “concorsino”); dall’altra parte il rischio di non insegnare affatto, né alle medie né altrove, grazie al provvedimento che estenderebbe l’orario di cattedra da 18 a 24 ore settimanali. Se l’applicazione di questa norma per i colleghi a tempo indeterminato si traduce in un aumento del carico di lavoro senza alcuna retribuzione aggiuntiva, per i docenti precari ha conseguenze ben più drammatiche, poiché con 6 ore in più tre insegnanti di ruolo possono sostituire un quarto insegnante precario, divenuto ormai non solo inutile, ma addirittura di troppo. (Che l’orario arrivi “solo” a 20 o 21 ore - come annunciato di recente - cambia i numeri ma non la sostanza: migliaia di persone perderanno comunque il posto di lavoro).
I precari abilitati sono già vincitori di concorso, alcuni dell’ultimo indetto (1999), altri attraverso le SSIS, i cui esami finali hanno valore concorsuale. Erano concorsi abilitanti, non a cattedra, ma davano accesso ad una graduatoria finalizzata all’assunzione, graduatoria il cui punteggio deriva sia dal voto del concorso, sia dal lavoro svolto, unendo le conoscenze disciplinari alla professionalità sviluppata. Ma il Ministro ha altre idee sulla valutazione del merito… ad esempio predisporre una prova preselettiva su discipline che la maggior parte dei docenti non ha studiato all’università né alla SSIS. E si vocifera che la graduatoria derivante dal concorso potrebbe annullare quella ora in vigore, spazzando via tutto il merito davvero conseguito! Anche l’eventualità del “doppio canale” per le future assunzioni (50% dalle graduatorie e 50% dal concorso) sarebbe un’ingiustizia, perché ognuno di noi si troverebbe davanti il doppio dei colleghi. E la logica perversa del concorso, finalizzato all’assunzione, va poi a scontrarsi col la norma delle 24 ore, che prevede al contrario dei tagli!
Le conseguenze di questa norma per i precari sarebbero irreversibili, mentre questi insegnanti continuano ad istruire, con passione e fatica, i figli di coloro a cui non viene detto cosa sta accadendo nella scuola pubblica italiana. Anche questo provvedimento, infatti, ha solo ragioni economiche, come dichiara il Ministro: «I tagli saranno 182 milioni su un bilancio della scuola che è intorno ai 36 miliardi. Vuol dire che i tagli saranno appena lo 0,5 % del totale. Non mi sembra affatto un salasso». Ma il salasso non è in termini di denaro: si stima infatti che la nuova norma causerà la “non chiamata” e quindi il licenziamento di quasi 30.000 persone. Le conseguenze didattiche non tarderanno a farsi sentire, visto che 6 ore in più non significano banalmente 6 ore in più seduti alla cattedra, ma si traducono in due o tre classi in più da seguire, in quasi cento alunni a cui dedicare sempre meno tempo ciascuno.
È il limite della democrazia subire le scelte di chi è stato votato da altri. Oggi però in Italia subiamo le scelte di chi non è nemmeno stato eletto. Non esistono governi autenticamente tecnici, perché le scelte sono sempre ideologiche e le scelte di questo governo appaiono in piena continuità con quelle dei governi che hanno varato le riforme Moratti e Gelmini: un preciso intento di cancellazione della scuola pubblica, che ha formato tante menti capaci e appassionate ma che ora non servono al Paese. Provocatoriamente mi verrebbe da dire ai miei ex alunni, ormai all’università, di non perdere tempo a studiare, perché oggi in Italia non ne vale la pena. Però, come insegnante, resisto e non lo dico.