di Dino Greco
Neppure il genio della lampada potrebbe aiutarci a capire come si tradurrà in programmi e in conseguenti atti politici la “Lettera di intenti dei democratici e dei progressisti” che Pd, Socialisti e Sel hanno posto a base della coalizione di centrosinistra.
Quel testo, fra allusioni ed omissioni, sembra confezionato col solo intento di consentire a ciascun attore di recitare la parte in commedia che più gli si confà, soddisfando (o non affossando) le aspettative – anche le più contraddittorie – del proprio potenziale elettorato di riferimento.
A ben vedere, più di ogni altra cosa, la Lettera serve a marcare i confini di un'alleanza che, a prescindere dai contenuti invero evanescenti, si conferma come il vero obiettivo politico dell'operazione.
Il cui senso giunge a compimento con l'affermazione – questa sì inequivocabile – che l'alleanza di democratici e progressisti “si impegna a promuovere un accordo di legislatura con le forze del centro liberale”. Dove per centro liberale si intende una costellazione di forze e soggetti che va dall'Udc ad altri agglomerati in gestazione, nel magma ancora fluido del capitalismo di matrice cattolica in libera uscita dopo la crisi irreversibile della destra berlusconiana.
In ogni caso, è da questa impegnativa dichiarazione, ben più che dai dieci esili capitoletti di cui è composto il documento, che si possono comprendere le intenzioni, la rotta ed il disegno politico che connotano il profilo della nuova coalizione.
Ha dunque scarso interesse indagare in quale dei due gruppi (democratico? progressista?) si collochi Sel. Merita semmai notare che del termine sinistra non si trova traccia nel testo. Si obietterà che non è da una parola sola che si può dedurre la portata di un progetto politico, anche se il linguaggio non è mai casuale ed evoca sempre un universo simbolico. Ma prendiamo per buona l'osservazione e proviamo ad esaminare il testo, nell'insieme e nelle parti. Cominciando da un punto che occupa nel documento una posizione di assoluto rilievo: il lavoro.
“La nostra visione – vi si legge – assume il lavoro come parametro di tutte le politiche. Cuore del nostro progetto è la dignità del lavoratore...”. Ma, subito dopo, il colpo al cerchio viene bilanciato da un simmetrico (e più sostanziale) colpo alla botte. Infatti scopriamo che la natura del conflitto sociale non porta più il segno “dell'antagonismo classico tra impresa e operai” e che il lavoro va piuttosto inteso come “il mondo complesso dei produttori, cioè delle persone che pensano, lavorano, fanno impresa”. In questa nuova “visione”, pare di capire, la modernità starebbe nell'alleanza fra capitale e lavoro, entrambi messi alla frusta “per garantire guadagni e lussi alla rendita finanziaria”. Insomma, secondo questo non proprio inedito manifesto interclassista, il sistema d'impresa non avrebbe alcuna responsabilità della bassa produttività, della scarsa competitività, persino della compressione dei salari e dei diritti: fra Marchionne e gli operai che l'amministratore delegato della Fiat tratta al pari di schiavi non si rileva un irriducibile antagonismo. Il disconoscimento della natura classista dell'organizzazione sociale unisce in un indistinto mondo dei produttori lavoratori e imprenditori, borghesi e proletari, proprietari e diseredati. E questo proprio in una fase della storia in cui la polarizzazione sociale, lo sfruttamento, la disuguaglianza e la proletarizzazione di ampie fsce di ceto medio dovrebbero rendere chiaro il carattere intrinsecamente duale dei rapporti sociali. Tutto, alla fine, si riduce ad un generico appello per una “politica sobria”, capace di “dare segnali netti all'Italia onesta che cerca nelle istituzioni un alleato contro i violenti e i corruttori”.
Il solo vero avversario individuato è la rendita finanziaria, trattata tuttavia come una sorta di invasione aliena: un cancro insediatosi clandestinamente nel corpo altrimenti sano di un'economia di mercato dispensatrice di frutti copiosi per tutti. Peccato che proprio quella rendita speculativa e usuraria sia sin qui ingrassata proprio grazie alle politiche monetariste di cui la Bce, l'Ue e Mario Monti sono stati i principali sostenitori e interpreti, corroborati dal consenso che il Pd non ha mai fatto mancare, sostenendo con convinzione tutti i trattati europei responsabili di avere sacrificato proprio il lavoro e il welfare alla mitologia del pareggio di bilancio.
La confusione raggiunge perciò inedite vette quando il documento cita proprio la Costituzione (che invece il conflitto fra capitale e lavoro lo vede al punto da indicare nei diritti del secondo il limite invalicabile alla libera iniziativa del primo) per rivendicarne “la corretta e integrale applicazione”, essendo essa “tra le più belle e avanzate del mondo”. Ma trascurando che sono proprio le politiche di rigore in pieno dispiegamento ad avere posto fuori legge non soltanto il keynesismo, ma tutta l'impalcatura dei diritti, a partire dal diritto al lavoro, che della Costituzione rappresenta l'architrave. Sicché risuona francamente grottesca l'affermazione: “Per noi salute, istruzione, sicurezza, ambiente sono campi dove in via di principio non deve esserci il povero e il ricco, perché sono beni indisponibili alla logica del mercato e dei profitti”. In linea di principio, appunto, mentre in linea di fatto, che è ciò che conta, si sta compulsivamente facendo l'opposto, poiché la strategia dei tagli e delle privatizzazioni sta espiantando l'intero sistema di protezione sociale e sta facendo carne di porco dei diritti di cittadinanza, malgrado l'articolo 3 della Carta li pretenda protetti al di sopra di ogni vincolo esterno.
Ora, è facile capire che dentro un siffatto impianto ideologico le affermazioni di principio appaiono come “caciocavalli appesi”, prive cioè di realtà e concretezza.
Il patto leonino che oggi viene imposto ai popoli d'Europa rievoca piuttosto la caustica definizione che ne diede Jean Jacques Rousseau nel diciottesimo secolo e che suona così: “Il ricco dice al povero: io sono ricco e tu povero, dunque ti propongo un patto: tu mi darai il poco che ti resta in cambio del disturbo che mi prendo nel comandarti”. Non è forse con la stessa arrogante supponenza che i tecnocrati bocconiani stanno propinando al popolo il loro gigantesco salasso?
Si può infatti essere certi che le cosiddette “riforme” sciorinate da Monti e dal suo governo (abolizione dell'articolo 18, eutanasia del contratto nazionale di lavoro, eliminazione delle pensioni di anzianità, varo di un sistema fiscale jugulatorio, ecc.) non saranno mai revocate dalla coalizione di centrosinistra ove questa si guadagnasse il diritto a governare. E infatti non troverete nel documento nulla che autorizzi una pur lieve speranza in tal senso.
Ha dunque ragione Pierluigi Bersani quando rivendica che “c'è tanto montismo sparso in quel documento”. E non ne ha di meno Francesco Boccia, che parlando a nome di Enrico Letta rivela che “una carta così la potrebbe firmare persino Monti”. Va al sodo anche l'ultramoderato Giuseppe Fioroni quando osserva che, al netto di qualche fuoco pirotecnico, “Vendola si è accontentato di rottamare il nome del premier, impegnandosi però ad accettare la sostanza della sua azione”.
In definitiva, il documento vergato dai promotori del nuovo centrosinistra non inverte la rotta, ma la conferma. Tutt'al più concede qualcosa alla retorica: combatte – parafrasando il Moro - “le frasi” del mondo, non certo il mondo reale.
La strada della discontinuità non passa da quelle parti: guai a tornare a prendere lucciole per lanterne!
Il dovere della sinistra è allora quello di unificarsi attorno ad un progetto alternativo di società e ad un programma di governo fatto di pochi ma chiarissimi obiettivi. Occorre farlo subito. Perdere altro tempo in dispute personalistiche, in snervanti primazie da piccola bottega di fronte a pericoli letali sarebbe segno di imperdonabile irresponsabilità, “passibile del codice penale della storia”.