di Michele Primi
L’essenza di Neil Young sta tutta nel finale del suo nuovo mastodontico album, Psychedelic Pill, trentaseiesimo della sua carriera. Sedici minuti di cavalcata rock, una dichiarazione di intenti sfacciata nonostante i quasi settanta anni di età (Walk Like a Giant ) e poi il silenzio, rotto dal rumore della sua chitarra che sbatte contro l’amplificatore con un tonfo. Intorno, un muro di distorsioni si sbriciola sotto i colpi di una melodia che si perde lontano. Questo è il gigante del rock americano. Un’icona che non ha voluto diventare monumento e continua a bruciare di rabbia. All’inizio della sua carriera, era The Loner: un viaggiatore solitario in preda al furore dei vent’anni, pronto a salire su una Pontiac e lasciare il tempo immobile di Winnipeg, Ontario, per raggiungere la terra promessa, la California della controcultura e degli hippy.
Attraversare un continente in solitudine, percorrendo ogni chilometro delle sue desolate strade raccontate da scrittori, registi e musicisti vuol dire prenderne possesso per sempre. Young non si è mai curato dei confini: il gigante ha un piede nei panorami del Canada (celebrati nell’elegia di Helpless, ricordati con nostalgia in Everybody Knows This is Nowhere) e l’altro nella pancia dell’America, in Ohio e in Texas, per raccontare le ingiustizie, le lotte sociali e il razzismo (in Southern Manin cui ricorda l’aggressio - ne subita in un bar dell’Alabama da contadini per il suo look da vagabondo). Ha dipinto con la sua chitarra paesaggi surrealisti che hanno dato forma all’idea stessa di America (indimenticabile la colonna sonora di Dead Mandi Jim Jarmusch), ha sferzato di chitarre rabbiose i sogni della terra un tempo promessa e poi abbandonata a sé stessa, ha parlato di amori che si inseguono su strade che non portano da nessuna parte, ha scritto l’apologia del rock’n’roll usando parole ruvide come il suo modo di fare. Come il testo di Hey Hey, My My, inno all’atteggiamento irriducibile recuperato dal punk e citato da Kurt Cobain nella sua lettera di suicidio («È meglio bruciare subito che spegnersi lentamente»). E quando gli anni sono passati, il vecchio Neil ha continuato a fare sempre la stessa cosa. Ogni volta che il gigante sale sul palco, il tempo si ferma: a Glastonbury nel 2009 quando ha omaggiato l’Inghilterra con una apocalittica versione di A Day in the Life dei Beatles, a Barcellona nello stesso anno quando ha dato una lezione di rock ad una generazione intera di hipster, costringendo un pubblico di divoratori di novità ad ascoltare in rispettoso silenzio una tempesta di suoni iniziata quattro decenni prima. Nessuno oggi avrebbe il coraggio di aprire un disco con un pezzo lungo ventisette minuti (Driftin ’ Back) e di chiuderlo con uno di diciassette (Walk Like a Giant). Lui lo fa perché è la storia e non gliene frega niente. Neil Young è sporco, canta fuori tono, è scarno fino ad essere disturbante, non si cura dell’immagine, È inchiodato ad un tempo in cui il rock girava sul vinile e non aveva confini. E in cui al suo fianco c’era la sua leggendaria band, i Crazy Horse. Quel tempo è oggi. «Voglio camminare come un gigante sulla terra» canta il vecchio Neil in Walk Like A Giant. Psychedelic Pill non è un ritorno. È solo un altro, enorme passo.
Pubblico - 09.11.12