121121germaniadi Tonino Bucci
L'agenzia di rating americana Moody's ha tolto la tripla A alla Francia e ha declassato il paese di Holland al livello Aa1. Il sistema bancario francese - questa la motivazione - sarebbe troppo esteso, cresciuto oltremisura e coinvolto, in maniera sospetta, con le economie indebitate dei paesi periferici dell'eurozona. Il declassamento potrebbe rendere più caro alla Francia l'approvvigionamento di capitali sui mercati finanziari con conseguente aumento del famigerato spread. A voler prendere per buoni i verdetti delle agenzie di rating - che non son certo la voce di dio - il rischio di bolle finanziarie e il rallentamento dell'economia reale avrebbero minato l'affidabilità della Francia nei confronti dei creditori.

La crisi dei debiti pubblici, però, non è un affare che riguardi solo i paesi mediterranei e della periferia dell'Ue. Ormai anche i colossi cominciano a tremare. Persino la Germania è per la prima volta costretta a fare i conti con un calo della produzione e dell'export. Più d'un quarto delle imprese tedesche prevede un taglio di posti di lavoro per il 2013, l'allarme viene dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung, il quotidiano più accreditato nell'establishment finanziario. Appena un venti per cento tra gli imprenditori è ancora convinto di poter creare posti di lavoro. «Il commercio con l'estero si è indebolito e la produzione legata all'export sta rallentando. Gli imprenditori, chiaramente, diventano più prudenti», si legge in un comunicato dell'IW, un istituto vicino alla confindustria tedesca. Chi trema è soprattutto l'industria dipendente dalle esportazioni. Il trenta per cento delle imprese in questo settore ha già pianificato un ridimensionamento. «L'economia tedesca è cresciuta ancora nel terzo trimestre in confronto agli altri paesi europei. Ma con un tasso dello 0,2 per cento visibilmente scarso. In particolare è l'industria automobilistica a soffrire del calo della domanda nell'economia globale». Appena il 24 per cento delle imprese si aspetta una crescita della produzione, mentre un 28 per cento prevede il segno meno e il rimanente 48 per cento una stagnazione. Non sarà recessione, «però l'economia reale scivolerà vicino al livello della stagnazione». Se il Pil tedesco quest'anno si attesta sull'uno per cento, per il 2013 dovrebbe crescere a un tasso dello 0,75 per cento.
Prevedibile, si potrebbe commentare. Non potrebbe andare diversamente per un'economia come quella tedesca che ha costruito le sue performance sull'export di qualità negli altri paesi dell'eurozona - oltre che sulla crisi dei titoli di stato delle economie periferiche che ha consentito fino a oggi di accaparrare capitali sui mercati finanziari a prezzi davvero irrisori, inferiori allo stesso tasso di inflazione. Le misure di austerità che - soprattutto per diktat della Germania di Angela Merker - sono state imposte a paesi come Irlanda, Spagna, Portogallo, Grecia, Italia hanno determinato in questi ultimi un calo della domanda e dei consumi. Dal prossimo anno i tagli alla spesa pubblica voluti dai vertici dell'Ue per i cosiddetti paesi spendaccioni cominceranno insomma a farsi sentire nella stessa Germania, sempre più in difficoltà a vendere le proprie merci all'estero. Chi è causa del proprio male pianga se stesso.
C'è da chiedersi dove andranno i capitali in eccesso se gli investimenti produttivi nell'economia reale non sono più ritenuti vantaggiosi a causa della crisi. Risposta semplice a darsi. L'organismo di stabilità finanziaria (Fsb) del G20 ha calcolato che il volume di scambi finanziari ammonta a ben 67 bilioni di dollari. Solo per avere un raffronto basta pensare che nel 2007, alla vigilia dello scoppio della crisi la quantità nominale di denaro che circolava nel mondo era di 62 bilioni. Dopo cinque anni di discettazioni sulla finanza cattiva la bolla speculativa non si è affatto ridotta, anzi è cresciuta. Il ritmo di crescita è impressionante se si considera che dieci anni fa il volume di transazioni era “solo“ di 26 bilioni di dollari. Gli investitori e le istituzioni finanziarie liberi da ogni controllo governano oggi quasi un quarto della ricchezza nel sistema finanziario globale. Le banche controllano quasi la metà della torta, il rimanente è nelle mani di assicurazioni, fondi pensione e banche di stato. Nonostante i tanti proclami uditi in questi ultimi anni, gli hedgefound prosperano nei paradisi fiscali e finanziari. Gli organismi internazionali che dovrebbero vigilare non sono neppure in possesso di dati precisi. Fino a che punto gli stessi bilanci delle banche siano puliti e non invece infarciti di titoli tossici è impossibile a dirsi. Poniamo che una banca vanti un credito a lunga scadenza e decida di rifinanziarlo, concedendo al debitore un prestito facilie a breve termine. In questo caso l'aspettativa di una remunerazione immediata entra nel bilancio tra le voci attive. Ma l'operazione finanziaria che nominalmente crea nuovo denaro, rimane ad alto rischio. Questi investitori che operano a grandi livelli sono gli stessi che hanno finora speculato sulla crisi dei titoli di stato e che, al momento opportuno, dopo aver ricevuto generose somme liquide di denaro pubblico (anche dalla stessa Bce), spariscono nel nulla. Questi operatori finanziari sono concentrati soprattutto negli Stati Uniti - dati alla mano del Fsb. Qui muovono un giro di transazioni di 23 bilioni di dollari, il 35 per cento dell'intero settore finanziario. L'eurozona segue a ridosso. A oggi la ricchezza nominale che circola nei mercati è di 22 bilioni di dollari.

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