di Ritanna Armeni
Non è un atteggiamento estremista e tantomeno un capriccio quello che ha spinto Susanna Camusso, segretaria del più grande sindacato italiano, a non firmare l’accordo sulla produttività. E quell’accordo oggi non è solo privo della firma di “un sindacato”, come dicono tutti i giornali e i telegiornali, dando di fatto alla Cgil che dice no un ruolo residuale. Quel rifiuto –è bene non dimenticarlo –è della maggiore confederazione, che, osservando la sua storia, non si può certo accusare di sovversivismo. È un no che pesa. Susanna Camusso aveva ed ha le sue buone ragioni per rifiutare le proposte e l’ideologia ad esse sottesa, nonché le bugie e le mistificazioni che di esso sono cresciute intorno a quell ’intesa.
Gli aumenti salariali – questo dice la vulgata del governo e dei mass media – devono andare a quei lavoratori che producono di più, quindi devono essere spostati nella contrattazione azienda per azienda.
E detta così sembra una cosa giusta. Vogliamo premiare i fannulloni? Certo che no.
Ma non è questo il punto. Il punto è che il contratto nazionale in questo modo viene di fatto annullato e a parità di lavoro vengono premiati(?) attraverso una defiscalizzazione quei lavoratori che si trovano in aziende in cui la produttività aumenta. Facciamo un esempio. Se il contratto nazionale raggiunge attraverso la lotta e la contrattazione di tutti i lavoratori un aumento di 100 euro, solo una parte va a tutta la categoria, l’altra si sposta alla contrattazione aziendale e dipenderà dagli accordi che si possono fare azienda per azienda.
Le conseguenze sono molte e per i lavoratori tutte negative. La maggior parte di loro avrà meno soldi, usufruendo solo del contratto nazionale e quindi di una sola parte degli aumenti eventualmente raggiunti. Un’altra parte ne avrà di più (forse) ma solo se sarà disponibile ad una maggiore flessibilità e a turni ed orari decisi dall'azienda. In una parola a farsi sfruttare di più. Il modello Fiat, come si vede, ha fatto scuola e ha raggiunto anche le stanze di palazzo Chigi. È evidente la crescita della diseguaglianza fra gli stessi lavoratori, l’aumento dello sfruttamento, una ulteriore mancanza di protezione per quelli della piccole aziende che rappresentano la maggior parte del tessuto produttivo del paese. Insomma un ulteriore peggioramento delle condizioni lavorative e dei salari. Ma la fine di un minimo contrattuale nazionale pone una grave ipoteca anche sul futuro. C’è bisogno di quel minimo per poter prevedere in un tempo non troppo lontano un minimo salariale europeo che eviti il dumping fra i paesi e la concorrenza fra lavoratori. Che avvicini per esempio i salari serbi a quelli italiani o tedeschi. Ed almeno ponga qualche limite a delocalizzazioni e sfruttamenti selvaggi in alcuni paesi e a cassa integrazione, disoccupazione e ricatti in altri. Ma almeno la produttività aumenterà? Si raggiungerà almeno il fine di aumentare la produttività e quindi di contribuire a risollevare il paese dalla difficile situazione crisi? E qui si introduce la seconda vulgata dei ministri di Monti e della maggior parte dei mass media. Certo c’è qualche sacrificio, ma i migliori vengono premiati e il paese tutto ne beneficerà.
Neppure questo è vero. La produttività oggi non dipende più da un maggior sfruttamento dei lavoratori e da un abbassamento dei loro salari, ma da altri più importanti fattori, quali l’innovazione, gli investimenti e il sistema paese.
Facciamo ancora una volta, per capire, un esempio semplice. Immaginiamo un lavoratore che fa spremute di arance a mano. In un’ora, lavorando molto, riuscirà a farne 100. La sua paga oraria, sempre per ipotesi è di 10 euro. Se lui, o l’azienda per cui lavora, vuole aumentare la sua produttività può chiedergli di fare in un'ora 120 spremute e di ridurre il suo salario a 9 euro. Ma basterà questo a battere un concorrente internazionale che, introducendo lo spremi agrumi elettrico e potendo magari usufruire di un costo dell’elettricità minore di quella di cui usufruisce il nostro lavoratore e la nostra azienda, di spremute in un’ora ne produce 500? Certamente no.
Ora l’accordo non firmato dalla Cgil propone esattamente questo modello irrealistico e fuori del mondo della produttività. Si riduce quindi a sancire che i lavoratori possono essere pagati meno e possono essere sfruttati di più. Ancora una volta guarda al modello Marchionne e lo applica. Con meno aggressività certo e senza cacciare la Cgil dai luoghi di lavoro. Ma di quello si tratta. Ora, mi si dica, per favore, perchè un sindacato, ancorché dominato dalle migliori intenzioni di mediazione, dovrebbe firmare un accordo cosi?
Pubblico - 23.11.12