di Marco Sferini
Cinquemila anni di “evoluzione” e non siamo capaci a scrollarci da addosso il vizio di deridere e insultare chi ci appare “diverso” da noi: per colore della pelle, per istinto sessuale, per pensiero, per abitudini, per malformazioni congenite, per handicap di mille tipi.
Cinquemila anni di “evoluzione” e ancora questa umanità si spara addosso per potere, odio, supremazia, primazia e un ragazzo di 15 anni si impicca con la sua sciarpa perché evidentemente il rosa è ancora lì… nel triangolo hitleriano del marchio infame dell’omofobia ancestrale di tanti, troppi “esseri umani”.
I suoi compagni di scuola si sentono così, ora, dicono. Proprio con il marchio dell’omofobia addosso. Non è giusto colpevolizzare tutti. Sarebbe come non prendersela con nessuno.
Ma serve spargere altro odio, altro risentimento, altro rancore? Certamente no. Serve, invece, capire, parlare e sentire le opinioni di questi ragazzi e di queste ragazze: perché alcuni di loro sbeffeggiavano su Facebook “il ragazzo dai pantaloni rosa”?
Perché gli esseri umani si divertono a torturare psicologicamente chi giudicano “diverso”, magari anche “sfortunato” come può diventare la figura di un ragazzo omosessuale?
Se fosse spuntata la moda dei pantaloni rosa e del vestire eccentricamente tutte e tutti per “fare tendenza”, nessuno avrebbe dato peso a quel colore. Ora torna, invece, nella mente come il colore con cui si schernivano gli omosessuali durante le persecuzioni e gli olocausti perpetrati dal Terzo Reich.
Quanti di questi ragazzi, che hanno contribuito alla formazione del senso di frustrazione del 15enne sfociata nel suicidio, conoscono quella storia tremenda? Quanti sanno che per anni il rosa è stato un colore racchiuso in un triangolo e cucito sulle giacche di chi si avviava ai campi di sterminio e di concentramento di mezza europa?
Quanti, ancora, sanno il numero degli omosessuali morti sotto le persecuzioni hitleriane?
Quanti sanno cos’è il comportamento che hanno messo in essere contro quel ragazzo? Sanno che si chiama pregiudizio, scherno?
Forse lo sanno, forse no. Ma quello che conta è che la morte di A.S. resta e deve rimanere un macigno sulle nostre coscienze: soprattutto su quelle di chi ha non pensato che quanto stava facendo potesse essere in qualche modo il prodromo di una possibile tragedia.
E poco c’entra, a mio avviso, anche una legge contro l’omofobia in questo caso: certo, avrebbe impedito magari quella ignobile pagina su Facebook (cosa ci stanno a fare i moderatori di Zuckerberg? Censurano solo le foto dei bimbi uccisi a Gaza dai missili israeliani, ma le pagine che deridono pubblicamente un ragazzo perché veste di rosa restano intonse), ma non avrebbe insegnato a questi ragazzi del 2000 a considerare nuovamente le loro opinioni.
Dalle opinioni meno dette, più recondite in noi, si scatenano gli istinti e si traccia il solco del limiti dal quale non si può uscire per evitare di limitare la libertà altrui. Ognuno di noi ha un filtro, una soglia oltre la quale sa che non può eccedere, altrimenti violerebbe un proprio codice morale.
Sovente questo codice morale personale coincide con i valori comuni di espressione e mantenimento della piena libertà altrui di espressione in tutti i sensi. Altre volte invece questa coincidenza non c’è, ed ecco che accadono fatti come quello di A.S.
Si cerca allora di parlare di “colpa”. Si cerca di attribuirla a qualcuno, a qualcosa. Ma la colpa è nella sottovalutazione di tante piccole azioni: dalla tolleranza delle battutaccie sugli omosessuali fino alla disinvoltura con cui tutti noi molto spesso consideriamo naturale il “vaffanculo”, tanto da farne un simbolo addirittura politico e un richiamo anti-istituzionale, di ribellione.
Quando un “vai a fare in culo” possa essere espressione di ribellismo è tutto da dimostrare. Se ponessimo già un vincolo morale a questo intercalare quotidiano, se provassimo vergogna perché significa offendere chiunque è omosessuale, bisessuale, transessuale, eccetera; ebbene, se mettesimo un anatema su questa parola, forse ci vergogneremmo per i film degli anni ’70, quando era lecito fare battutaccie pecoreccie sui gay e, al contempo, li si condannava pubblicamente. Vizi privati e pubbliche virtù…
La mancanza di una morale sessuale laica ha portato a tutto questo: ha portanto anche alla morte di A.S. Perché la Chiesa Cattolica ci ha istillato il sacro senso di peccato sin dalle prime ore della nostra esistenza. Ci ha cresciuti condannando la diversità e abituandoci a vivere il sesso come dovere familistico finalizzato alla procreazione.
La morale borghese ha fatto il resto: è degno di rispetto solo chi rientra nei canoni della “normalità”. Chi si veste in jeans blu o in pantalone gessato va benissimo, che c’è da ridere? Ma un maschio… via… Un maschio che si veste con un pantalone rosa è ovviamente risibile. E allora perché non riderne, perché non martoriarlo per un anno con questa vergognosa nenia, facendolo sentire un estraneo tra gli esseri umani, uno impossibilitato a stare in questo mondo. Se non al prezzo di essere quotidianamente passato sotto le forche caudine del pregiudizio e del dileggio più sincero e, quindi, più tenace e pericoloso.
Quando ho letto la notizia di cronaca che riguardava A.S., ho provato rabbia non contro i giovani che lo hanno deriso, ma contro una società intera che li ha nutriti a pane e banalità. Quella banalità del male che è di triste, antico ricordo e che oggi ritorna, proprio in rosa, proprio a forma di triangolo… stampata su tutti i nostri vestiti, come emblema di vergogna.