121126bracciantidi Gaetano De Monte
Correva l’anno 1982, e la Puglia, per la quantità, e l’apprezzabilità delle sue produzioni agricole, era chiamata la California d’Italia. Trent’anni dopo, centinaia di miglia di ceppi di piante lasciate agonizzare, bocche delle condotte d’acqua arrugginite, e numerosi terreni all’asta, mostrano il volto agricolo della recessione.
Una crisi che investe l’intero comparto, in tutto il territorio pugliese: la Capitanata per la raccolta del pomodoro, il barese per i frutteti, il tarantino per l’uva da tavola. Basta dare un’occhiata all’albo degli avvisi giudiziari, per rendersene conto. Sono all’incanto, infatti, più di mille terreni destinati a coltivazioni o allevamenti, quasi seicento nella sola provincia di Taranto. Ed è la zona occidentale, l’area della Conca d’oro, sull’asse che da Massafra arriva fino all’agro metapontino, quella più in difficoltà.

Dove si produce il cento per cento degli agrumi pugliesi e il sessanta per cento dell’uva da tavola, molti contadini ora stanno abbandonando la terra e svendendo i terreni.
Cessioni imposte, in massima parte, dall’impossibilità di onorare gli impegni con Inps e banche, o di assolvere alla corresponsione dei debiti verso Equitalia. Agricoltori strozzati, dunque, dalla pressione fiscale. Ma non solo.
A raccontarci la dura realtà dell’agricoltura ionica è Vito Vetrano, ventotto anni, bracciante agricolo, che il 30 ottobre 2012 ha fondato, insieme ad altri braccianti agricoli, a Palagianello, in provincia di Taranto, l’associazione “Braccianti Uniti”, che “non sentendosi più tutelati da istituzioni e sindacati tradizionali”, cercano in maniera autonoma di far valere i propri diritti.
Una categoria quella dei braccianti, quasi priva di garanzie e ammortizzatori sociali, forse la più esposta ai ricatti. Che per le donne può essere di qualsiasi natura, spesso anche sessuale. “La condizione della donna contadina in generale è alienante”, spiega Vetrano: “nella società ionica, è come se subisse una vera e propria estromissione dalla vita sociale; nei campi, poi, per mantenere un lavoro misero, sfruttato e sottopagato, a volte sono costrette a subire violenze verbali e continue avances da parte dei capisquadra, che chiedono prestazioni sessuali in cambio della sicurezza del posto di lavoro. Donne, queste, che non sempre hanno la forza di denunciare gli abusi subiti, ma che cercano di resistere il più possibile alle pressioni dei caporali”.
Già, i caporali, i capisquadra, gli intermediari di manodopera e trasporto, figure divenute così forti nelle campagne, tali da poter ricattare perfino il proprietario terriero. Succede infatti, che in tempo di crisi, le aziende agricole, soprattutto le più piccole, non avendo la disponibilità economica immediata per pagare i lavoratori/lavoratrici, in mansioni come l'acinellatura e la defogliazione dei vigneti, esternalizzino la lavorazione direttamente ai caporali, che gestendo nella maggior parte dei casi una "squadra" di 20-25 persone, a volte anche di più, propongono al proprietario di essere lui stesso, ( il caporale) ad anticipare il salario ai braccianti, in cambio del pagamento di un corrispettivo più alto quando l’imprenditore venderà l’uva. E che paghi l'imprenditore o paghi il caporale, il salario sarà sempre molto al di sotto di quanto stabilito dal contratto provinciale. Ma l'anticipo del pagamento da parte del caporale non avviene quasi mai, e quindi succede che i braccianti lavorino anche mesi, senza ricevere nulla, scontando molto spesso, anche il mancato versamento dei contributi.
Storie, queste, di ordinario sfruttamento, e di caporalato in terra ionica, su cui si tornerà a scrivere, in maniera approfondita.

da www.globalproject.info

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