121129guccinidi Michele Primi
«Buongiorno signore e signori. Cosa facciamo? Parliamo del mio disco? È nuovo, e sarà anche l’ultimo». Francesco Guccini è umanità e qualità d’altri tempi: «Sono nato nella prima metà del secolo scorso, che suona come un’epoca lontanissima. Ad una certa età si comincia ad essere spaventati dal mondo intorno». Il Circolo dei Combattenti e Reduci di via Cadomosto, a Milano, è una finestra sul passato. Una balera, luci sgargianti e specchi d’annata, pane, salame e vino, prezzi popolari e un altro ritmo, musicale e di vita. Lo ha scoperto sua figlia Teresa, giovane e bella.

Si chiude un cerchio: Guccini torna da dove era partito, la balera: «In cui mi sono esibito sopra e sotto al palco, prima come ballerino di liscio in cerca di ragazze, poi come musicista. Tanti anni fa». Era il 1961, Guccini è giornalista alla Gazzetta di Modena ed entra a far parte di un gruppo di musica da ballo che si chiama prima I Marinos e poi I Gatti. Le osterie bolognesi, il Moretto e Vito, gli anni di quello che lui definisce «il rumore nottetempo» e l’esordio come cantautore nel 1967 con Folk Beat n.1 devono ancora arrivare. Guccini è voluto venire qui, nella balera, per presentare il suo sedicesimo album, L’Ultima Thule, il primo da Ritratti del 2004. Sarà anche l’ultimo: «Le cose dette sono state già dette. Fare canzoni mi è sempre più difficile. La voglia di suonare la chitarra è sparita».
Si chiude una pagina di storia della canzone italiana, quella scritta da un maestro della parola che ha raccontato quarant’anni di vita, società ed ideali. L’Ultima Thule è un disco breve ed efficace, semplice e vero come il folk. Otto canzoni registrate con gli amici di sempre (Flaco Biondini, Vince Tempera, Ellade Bandini, Antonio Marangolo) che si muovono intorno ai suoi temi fondamentali. Francesco Guccini si definisce un artigiano, lo dice in Gli Artisti: «Fabbrico grappoli di illusioni che svaniscono nella memoria», ed è con la cura di un artigiano che costruisce canzoni che parlano ancora di noi e della nostra storia. Due pezzi riportano indietro ai valori fondanti della repubblica: Su in collina è la traduzione di una poesia dialettale di Gastone Vandelli che racconta l’o m i cidio del partigiano Brutto sull’A ppennino modenese, Quel giorno d’aprile parla della liberazione e descrive l’Italia come «una donna che balla sui tetti di Roma». « C’è un terzo episodio di questa storia, ed è quello che racconto ne Il testamento dei pagliacci» dice Guccini. «I pagliacci siamo noi cittadini, vessati oggi come allora da episodi sconcertanti. La speranza è la stessa, che le cose possano un giorno cambiare».
L’addio di Guccini alla canzone italiana è intenso e commovente, ma non malinconico. È il mondo che cambia insieme alla lingua italiana tanto amata («Un tempo i fiumi straripavano, ora invece esondano. Qualcuno di voi sa dirmi perché?»), le canzoni che non vengono più, i negozi di dischi che spariscono come i cinema. Rimangono gli autogrill, protagonisti di una delle sue canzoni più belle. E la poesia della natura, la memoria e l’immaginazione, la fantasia rimasta intatta, che spiana la strada al Guccini scrittore che ha ancora molto da dire. «Mi ricordo quando da bambino andavo giù al fiume con il mio amico Franco Casari. Scorreva il Limenta che si getta nel Reno, è già Emilia. Portavamo sempre con noi coltello e fiammiferi, rubavamo le patate e le cucinavano sul fiume. Era la gioia del furto e del gioco. Lui mi diceva: vivi in città, chissà quanti film hai visto. Io non avevo il coraggio di dirgli che non avevo soldi per andare al cinema, e allora i film me li inventavo». Tutto comincia e finisce nel paese di Pavana, trenta chilometri di tornanti nei boschi in provincia di Pistoia, luogo dell’ispirazione che oggi è la casa di Guccini: «In Canzone di notte n.4 ho inserito un dialogo con i miei zii, per tornare indietro ai tempi in cui vivevo nel mulino dei miei nonni. Mi dicevano di spegnere la luce, perché la notte è fatta per dormire e non per leggere»: da quelle notti «vissute in lungo e in largo», protagoniste di molte canzoni (e di Notti , forse il pezzo più bello di L’Ultima Thule) è nato un cantante scrittore che ha amato Borges (dalla sua lettura è nata l’idea dell’ultimo disco), l’avventura e la politica. E che saluta senza rimpianti, con un disco che ha in copertina la foto di un veliero che viaggia in un mare di ghiaccio all’ottantesimo parallelo scattata da un amico esploratore, è stato registrato tutto nelle antiche stanze del mulino di Pavana e porta il titolo che ha sempre desiderato: «Ho sempre pensato che il mio ultimo disco si sarebbe intitolato così, fin dai tempi di Radici del 1972. Le canzoni sono state tante. Ho ancora la scrittura, che mi piace e mi diverte».

Pubblico - 29.11.12

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