di Livio Pepino, Andrea Morniroli
Passati i giorni del trionfalismo occorre tornare a ragionare. Le indicazioni provenienti dal primo turno delle primarie del Partito democratico sono, a dir poco, articolate e non c'è da stare allegri.
Primo. Cominciamo dai dati generali: hanno votato al primo turno 3.110.709 cittadini, mentre nelle primarie dell'Unione del 2005 avevano votato in 4.311.149 e, in quelle per la segreteria del Pd, 3.517.000 nel 2007 e 3.102.709 nel 2009. C'è stata, dunque, una lieve ripresa dal 2009 ma un netto calo rispetto alle consultazioni precedenti (un milione e 400 mila voti in meno rispetto a sette anni fa). I titoli giornalistici sull'affluenza-record (avvalorati dall'incauta comunicazione iniziale che i votanti avevano superato i quattro milioni) vanno dunque ridimensionati.
Certo, tre milioni di votanti sono un bel numero, ma il trend dell'allontanamento dalla politica, lungi dall'essere smentito, è confermato (a meno che si vogliano sostituire i numeri con i soliti argomenti sulla incomparabilità dei dati e quant'altro...).
Secondo. Nel dibattito precedente e successivo al voto si sono ulteriormente esaltate le derive leaderistiche e sono spariti i programmi, sostituiti dalla evocazione di categorie del tutto soggettive e scivolose, se non accompagnate da riferimenti concreti, come il "nuovo" e il "vecchio", il "rinnovamento" e la "conservazione". Lo dimostra il fatto che la rincorsa ad accaparrarsi le spoglie di Vendola sta avvenendo sulla base del maggior appeal dei candidati residui, entrambi totalmente interni - nei comportamenti concreti al di là delle sfumature verbali - all'agenda Monti.
Terzo. In ogni caso, e per quanto qui maggiormente interessa, il 15 per cento o poco più di consensi a Vendola (superiore di un punto percentuale a quello ottenuto da Bertinotti nel 2005, nel confronto con Prodi, ma inferiore in termini assoluti di quasi 150.000 voti: 485.689 a fronte di 631.592) sancisce, anche quantitativamente, la totale irrilevanza delle posizioni di Sel nel futuro del centrosinistra. Una irrilevanza non occultata dagli attuali corteggiamenti in vista del ballottaggio e già insita nell'impegno, sottoscritto all'inizio del percorso, «a sostenere (comunque) il centrosinistra e il candidato scelto dalle primarie alle prossime elezioni politiche».
Che fare in questo contesto per chi ha a cuore una reale alternativa al governo Monti e al montismo? Noi crediamo che ci sia un punto di partenza irrinunciabile. Smetterla una volta per tutte con i pasticci, i non detti, i compromessi al ribasso, i tatticismi a ogni costo, i "voti utili", il perseguimento del meno peggio... È questa politica che ci ha portati al disastro attuale anche della sinistra. Diciamolo chiaro una volta per tutte. Il discrimine non sono le parole ma i fatti. Chi crede che il governo Monti sia stato la salvezza del paese e che non ci fosse una possibilità diversa di affrontare la crisi (nonostante le conseguenze recessive e l'ulteriore diffuso impoverimento delle fasce più povere), che i diktat dell'Europa delle banche (e con essi il cosiddetto patto fiscale, la modifica costituzionale sul pareggio di bilancio e la riduzione delle tutele del lavoro) siano un boccone amaro ma inevitabile, che il futuro del paese stia nelle grandi opere è giusto e coerente che stia con il centro sinistra rappresentato dalle primarie. Chi non ci crede, e pensa, al contrario, che la rinegoziazione delle politiche economiche europee (in un nuovo asse tra i paesi mediterranei), una diversa politica fiscale e di contrasto della corruzione, il ritiro da tutte le operazioni di guerra e l'abbattimento delle spese militari, la definitiva rinuncia alle grandi opere, la previsione di un tetto massimo per i compensi pubblici e privati e l'azzeramento delle indennità aggiuntive della retribuzione per ogni titolare di funzioni pubbliche consentano di finanziare un diversa via di uscita dalla crisi (fondata sulla riconversione di ampi settori dell'economia, su migliaia di piccole opere di immediata utilità collettiva, su un piano di riassetto del territorio nazionale e dei suoi usi e via seguitando) deve stare da un'altra parte. Una via di mezzo non esiste: non per settarismo o per intolleranza, ma per rispetto delle posizioni di ciascuno e soprattutto dei cittadini chiamati a scegliere (e il cui riavvicinamento alle istituzioni non si incentiva con le parole ma solo con un diverso modo di fare politica sui territori e nei luoghi della rappresentanza).
Certo - lo sappiamo bene - tutto questo non è una bacchetta magica e non è ancora la soluzione dei problemi. Ma è la condizione per provare, almeno, a risolverli. In una prospettiva lunga e complessa che è, peraltro, la sola possibile e utile. A questa prospettiva abbiamo voluto dare un contributo con la campagna "Cambiare si può". Sabato, all'assemblea nazionale di Roma, cominceremo a costruire la casa comune di chi ci crede e vuole percorrerla: sul territorio e nelle istituzioni, nei tempi brevi e in quelli più lunghi.
Il Manifesto - 29.11.12