di Saverio Ferrari
Che all'interno della Procura di Milano, dopo la riapertura delle nuove indagini sulla strage di piazza Fontana, agli inizi degli anni '90 non tutti avessero remato nella stessa direzione, è un fatto. Lo stesso giudice istruttore Guido Salvini nella sua richiesta di rinvio a giudizio del febbraio 1998, con parole amare, sottolineò lo «scarsissimo sostegno dei dirigenti del Tribunale di Milano», in «silenzio» a fronte di sollecitazioni e «decine di segnalazioni scritte», come se «l'istruttoria non esistesse».
Solo poco più di un anno prima, in commissione stragi, il sostituto procuratore Gerardo D'Ambrosio non solo sollevò contestazioni procedurali, ma attaccò le risultanze emerse nel corso dell'inchiesta, sostenendo l'infondatezza di qualsiasi collegamento internazionale circa la strage.
Il timore, in tutta evidenza, era che alla sbarra potessero finire alcuni agenti della Cia in rapporti con i gruppi della destra eversiva. Chi, come D'Ambrosio, aveva scritto sulla vicenda Pinelli una delle pagine più vergognose della storia giudiziaria italiana, assolvendo per ragioni di sudditanza al potere tutti gli imputati, non poteva certo acconsentire che si accusassero addirittura gli Usa di aver agito alle spalle degli stragisti.
Ora si è in attesa delle decisioni del gip Fabrizio D'Arcangelo riguardo alla richiesta, anche da parte dei familiari delle vittime, di riapertura delle indagini fondata su recenti spunti investigativi. Va subito detto che accanto a improbabili e fantasiose piste, originate in parte dal libro di Paolo Cucchiarelli («Il segreto di Piazza Fontana»), come dalle dichiarazioni di Alfredo Virgillito, classe 1960, parente del più famoso Michelangelo, operatore finanziario del dopoguerra, deceduto nel 1977, che ha accusato lo stesso Michelangelo Virgillito e altri esponenti dell'alta finanza (Michele Sindona, i Ligresti e Antonino La Russa, padre di Ignazio), di essere tra i mandanti della bomba alla Banca Nazionale dell'Agricoltura, altri elementi andrebbero vagliati con più attenzione.
Nelle 53 pagine, con la richiesta di archiviazione, depositate lo scorso fine aprile dai pm Armando Spataro e Maria Grazia Pradella, le tesi di Paolo Cucchiarelli, rilanciate dal film «Romanzo di una strage» riguardo all'esistenza di una doppia bomba (per Cucchiarelli una anarchica e l'altra fascista, per Marco Tullio Giordana, una fascista e una dei servizi), sono state valutate come assolutamente inverosimili e «palesemente prive di fondamento». Così dicasi per le confuse esternazioni di Alfredo Virgillito, già classificato da documentazione medica come persona «mentalmente disturbata» e «psichicamente instabile».
Più concreti e degni di essere seriamente considerati, invece, gli indizi che ultimamente sono stati offerti da ex appartenenti a Ordine nuovo. Ci riferiamo alle dichiarazioni rese davanti al pm di Milano, nell'ottobre 2010, da Gianni Casalini, circa la sua partecipazione insieme a Ivano Toniolo, a uno degli attentati sui treni, nell'agosto 1969, prima di Piazza Fontana. Casalini non era un personaggio qualsiasi, legato a Padova al gruppo di Franco Freda, era, in quegli anni, come "fonte Turco", anche un informatore dei servizi segreti. Tra il 2008 e il 2010 ha ribadito che fu proprio a casa di Ivano Toniolo che si tenne la famosa riunione del 18 aprile 1969, presente Guido Giannettini, agente del Sid, per mettere a punto la strategia che sarebbe culminata con l'attentato di Piazza Fontana.
Ivano Toniolo risulta essersi trasferito da molti anni in Angola. Interrogarlo, come indagare sui "ragazzi di Freda", Aldo Trinco, Pino Romanin e Marco Balzarini, forse non sarebbe tempo sprecato. Ancora più interessante lo spunto offerto, nell'ottobre e nel dicembre 2010, da Giampaolo Stimamiglio, ex di Ordine nuovo, che dopo la morte di Giovanni Ventura, suo intimo amico, sentendosi liberato dal vincolo «al silenzio», in più dichiarazioni ha parlato del coinvolgimento di Delfo Zorzi nella strage, ma soprattutto del fatto che lo stesso «Giovanni Ventura nell'ultima occasione in cui lo vidi in Argentina (...) mi disse che presso la Banca Nazionale dell'Agricoltura aveva operato un ragazzo molto giovane di Milano che faceva parte del gruppo della Fenice e che aveva stretti rapporti con Massimiliano Fachini. Ventura aggiunse, se ben ricordo, che il padre di questo ragazzo era un funzionario di banca». «Delfo Zorzi», queste le sue parole, «si era limitato a curare una parte del trasporto dell'ordigno (che) era stato confezionato in un casolare, o meglio, in una villetta monofamiliare (che) Angelo Ventura (fratello di Giovanni, ndr) aveva avuto in uso da un suo amico del trevigiano (...) in una frazione vicina a Castelfranco, lungo la strada per Treviso». Perché non provare a capirci di più?
Il Manifesto - 12.12.12