di Alessandro Dal Lago
Se il senato non ritirerà il taglio di 300 milioni al sistema universitario previsto dalla legge di stabilità, metà degli atenei italiani chiuderanno. È il grido di dolore del ministro Profumo, ripreso subito dalla Conferenza dei rettori, dal Cun ecc. Un grido che ci commuove, ma che non ci impedisce una domanda. Dov'erano negli ultimi anni, diciamo dalla Gelmini in poi, i rettori, il ministro (già rettore del Politecnico di Torino) e gli altri illustri esponenti della governance dell'università italiana? E che dire del resto del governo, presieduto da un ex rettore, e che vanta come ministro della cultura un altro rettore, quello della Cattolica?
E che dire del fatto che aumenta di 9,2 milioni di euro il contributo agli atenei privati dove insegnano alcuni dei ministri in carica?
Così, se il taglio verrà mantenuto, si tratterà del colpo di grazia a un ammalato in agonia, non di un' imprevedibile aggressione.
Da anni - da quando è stata introdotta l'autonomia finanziaria - l'università è stata costretta forzosamente a dimagrire, i fondi della ricerca sono diminuiti in modo vertiginoso e il reclutamento di fatto limitato a pochi ricercatori a tempo determinato. Intanto, la stampa cosiddetta indipendente e quella di destra hanno alimentato una campagna forsennata, da cui risultava che i docenti universitari sono un branco di baroni oziosi, con stipendi da favola e specializzati nel mandare in cattedra mogli e fidanzate. I gravi casi di abuso e nepotismo che hanno afflitto alcune sedi sono stati usati per una campagna sostanzialmente ideologica, con il risultato che la ministra Gelmini difendeva la sua riforma come anti-baronale, mentre, al contempo, nelle commissioni di concorso da ricercatori in su sono previsti solo professori ordinari. Alla faccia della lotta al baronato!
Ma il frutto più squisito di questa campagna è stata la creazione dell'Anvur, l'agenzia nazionale di valutazione, al cui direttivo sono stati conferiti, dai ministri Gelmini e Profumo, un immenso potere di organizzazione dell'abilitazione nazionale, la stesura dei criteri di valutazione dei docenti, nonché stipendi doppi di quelli dei professori. Oggi, l'abilitazione nazionale costa, secondo alcuni, intorno ai 126 milioni di Euro. E per produrre che? Finora un caos indescrivibile: al momento le domande sono state 68.000. Calcolando una media di 600/800 domande a commissione, ogni commissione delle aree umanistiche - dove non valgono i criteri strettamente bibliometrici - dovrà valutare all'incirca tra i 7000 e i 9000 «prodotti» (articoli, saggi, libri). Tutto questo in due mesi? E come faranno? Anche chiudendosi in un convento, a pane e acqua, e pregando in continuazione il Signore perché li sostenga e guidi, i commissari non potranno mai valutare decine di migliaia di pagine. E neanche in sei mesi ci riuscirebbero. A meno che non valutino un accidente e si limitino a dare un'occhiata ai curricula, come è molto probabile. Il che ci riporterebbe al passato e renderebbe superflua l'abilitazione nazionale...
Un lettore non addentro ai misteri della valutazione scientifica non si rende facilmente conto degli inverosimili pasticci prodotti dall'Anvur in tema di classificazione delle riviste scientifiche, dei criteri dei requisiti minimi per l'accesso all'abilitazione e così via. Ma può interessargli sapere che organi prestigiosi, come il «Times Higher Education Suppolement», hanno denunciato il pressapochismo dell'Anvur, i cui esponenti - nominati da Gelmini in base a criteri misteriosi, ma sostanzialmente politici - non rispondono mai alle critiche e se ne stanno sdegnosi sulla loro nuvoletta valutativa, mentre l'università va a picco.
tutto questo non ci sorprende. L'eutanasia dell'università rispecchia mirabilmente la tetra politica del governo Monti, che in nome del rigore dei conti sta ibernando un intero paese e la sua sfortunata ricerca scientifica e culturale.
Il Manifesto - 20.12.12