di Tonino Perna
Il Professor Monti nel presentare la sua agenda-programma per le prossime elezioni ha attaccato la Cgil e Vendola, sostenendo che sono dei conservatori, che rappresentano ormai posizioni arcaiche che impediscono all'Italia di crescere, modernizzarsi. E Monti, bisogna ammetterlo, questa volta ha ragione.
Siamo in tanti ad essere diventati conservatori perché vogliamo conservare i diritti del lavoro conquistati in decenni di lotte sociali, perché vogliamo conservare il welfare come diritto alla sanità pubblica, all'istruzione statale , all'indennità di disoccupazione. Siamo decisamente conservatori perché vogliamo proteggere l'ambiente e gli ecosistemi dalla
violenza delle grandi opere (come il Ponte sullo Stretto o la Tav in Val Susa), perché vogliamo conservare la salute contro le tecnologie inquinanti e pericolose (centrali nucleari ed a carbone, inceneritori, petrolchimici, prodotti Ogm ecc.), perché vogliamo conservare i paesaggi contro la cementificazione che ha coperto un decimo del territorio agricolo italiano, contro le trivellazioni petrolifere che hanno ridotto intere regioni (dalla Lucania alla Emilia al sud-est della Sicilia) a "formaggio svizzero". Siamo quelli che si battono ad oltranza per la difesa del territorio, della sua storia, identità, memoria (quelli del bel libro No Tav d'Italia curato da Gigi Sullo ed Anna Pizzo). E non ce ne importa niente della crescita se non ci spiegano di che cosa si tratta. Vogliamo sì la crescita della cultura, dei servizi sociali, della buona e dignitosa occupazione, delle produzioni di qualità, ma siamo altresì convinti della decrescita della produzione di armi, della finanza, delle sostanze inquinanti, della mercificazione dei beni comuni.
Il fatto che una parte significativa della generazione rivoluzionaria del '68 e degli anni '70 sia diventata conservatrice ci deve fare riflettere. Sicuramente non è un fenomeno legato all'avanzare dell'età - come diceva Churchill: «Chi è un conservatore a vent'anni è un coglione» - ma al mutamento profondo del modo di produzione capitalistico che si è registrato negli ultimi trent'anni. Perché questa è la grande novità del nostro tempo: nei paesi a capitalismo avanzato negli ultimi decenni è prevalso l'aspetto distruttivo, di risorse umane e naturali, rispetto a quello creativo. La «distruzione creatrice» di cui parlava Schumpeter si è ormai ridotta a pura distruzione di beni non riproducibili, di relazioni sociali, di ecosistemi.
La crescita per la crescita, la religione del Pil, l'indebitamento infinito - sia pubblico che privato - fanno parte di un unico meccanismo per mantenere in piedi questo sistema capitalistico. Si tratta di un vero e proprio accanimento terapeutico che mantiene in vita artificialmente un modello sociale ormai moribondo: i salari reali decrescono da vent'anni in tutto l'Occidente, la mobilità sociale è passata da ascendente a discendente, il lavoro precario è cresciuto spaventosamente, la qualità dell'istruzione è diminuita, l'inquinamento ha raggiunto livelli insostenibili.
«Siamo in guerra» ha detto due mesi fa Mario Monti e nessuno ha capito bene a chi si riferisse. Adesso è chiaro: è la guerra scatenata dal capitale finanziario, che lui ben rappresenta, contro tutte le forze sociali e culturali che vi si oppongono. Questo è il nocciolo duro del suo programma. Questa è la guerra che ci impongono e che dobbiamo combattere come fecero i partigiani più di mezzo secolo fa. Non avevano nessuna voglia di salire sulle montagne e rischiare la pelle, ma non avevano scelta: dovevano difendere e conservare la propria terra, la propria dignità e libertà. Erano dei conservatori puri che si opponevano al dominio nazifascista che portava il cambiamento nei rapporti tra i popoli, il nuovo Stato fondato sulla razza e sulla soppressione del più debole, l'uomo nuovo ariano che avrebbe dominato il mondo.
Per tutto questo siamo orgogliosi di essere conservatori e guardiamo con sospetto a chi si definisce progressista senza domandarsi che cosa significhi oggi il progresso. Naturalmente non siamo contrari ad ogni cambiamento, ad ogni innovazione, anzi diciamo che spesso bisogna «innovare per conservare» , come sosteneva Roberto Gambino in un bel saggio sulla salvaguardia dei Parchi naturali (Utet, 1997). L'innovazione, come la ricerca, come la crescita devono essere giudicate dai loro fini sociali, devono essere visti come strumenti per migliorare la qualità della vita, e permetterci di Restare Umani come ci invitava, con un vibrante appello, l'indimenticabile Vittorio Arrigoni.
Ps. Questo è il mio augurio per il prossimo anno. A noi tutti e alla redazione del manifesto, che vogliamo conservare per altri quarant'anni.
da il manifesto