di Felice Roberto Pizzuti

Il professor Monti, nella conferenza stampa di Natale, mentre ufficializzava la sua «salita» in politica, ribadiva di essere "imparziale nelle analisi" e, se non super partes, si dichiarava extra partes. Questa reiterata pretesa, che pure ha assicurato il successo del suo governo in quella parte dell'opinione pubblica più sfiduciata nella politica, è evidentemente insostenibile; e per capirlo, se ce ne fosse ancora bisogno, basta mettere a confronto la sua «Agenda» con i fatti.  Il capitolo dell'Agenda dedicato al qualificante obiettivo di «Costruire una economia sociale di mercato, dinamica e moderna» inizia con l'affermazione che «La riforma delle pensioni ha dato al Paese il sistema più sostenibile

e avanzato in Europa». Ma cosa implica la sua maggiore sostenibilità? e rispetto a quale criterio sarebbe più «avanzato»?
Come ci ricorda lo Spi, il sindacato pensionati della Cgil, il 2013 sarà il secondo anno nel quale, come prescrive la riforma Fornero, a circa sei milioni di pensionati con un assegno uguale o superiore ai 1217 euro mensili non sarà concesso l'adeguamento all'inflazione. Il potere d'acquisto di chi, ad esempio, riceve una pensione di 1576 euro netti è già diminuito di 478 euro nel 2012 e si ridurrà di altri 1020 euro nell'anno prossimo. Naturalmente, in tempi di sacrifici a tutti è richiesta la propria parte e il sistema pensionistico è da sempre strumentalmente imputato di essere finanziariamente "insostenibile" e colpevole di aggravare il debito pubblico. In realtà le statistiche ufficiali mostrano che le riforme effettuate dall'inizio degli anni '90 già dal 1998 avevano riequilibrato il saldo tra le entrate contributive e le uscite pensionistiche previdenziali al netto delle ritenute fiscali; da allora, l'avanzo è salito fino a 33 miliardi di euro nel 2008 (2,1% del Pil) e attualmente è di poco inferiore (1,7% del Pil), ma continua a migliorare il bilancio pubblico complessivo come una intera finanziaria da tempi di crisi. Nel 2012, a causa dei provvedimenti già presi dai due governi precedenti a quello attuale è anche diminuito il numero dei lavoratori andati in pensione, riducendo di altrettanto i posti di lavoro disponibili per le giovani generazioni. Ma la riforma Fornero prevede di ricavare, a regime, dal sistema pensionistico pubblico altri 20 miliardi di risparmi annui e ha accelerato di molto l'aumento dell'età pensionabile. Queste, evidentemente, sono tutt'altro che scelte extra partes e meno che mai rendono il sistema «più avanzato»; invece intaccano ulteriormente la credibilità del sistema previdenziale che anche in una «economia sociale di mercato» dovrebbe avere ben altra considerazione. Il punto è che nell'Agenda Monti - che è molto di parte - l'equità non dipende tanto da idonee politiche sociali quanto dalla liberalizzazione dei mercati. Eppure, oltre all'equità, è la stessa efficienza del sistema economico a richiedere un più efficace equilibrio tra mercato e istituzioni che, però, nei passati tre decenni è stato stravolto dall'affermazione combinata della globalizzazione e delle politiche neoliberiste. Monti - tralasciando che l'attuale crisi epocale nasce proprio dall'eccessiva autonomizzazione dei mercati, e in particolare di quelli finanziari - nella sua agenda scrive che «Va quindi dato un nuovo impulso alla previdenza complementare ....» (privata). La quale, dunque, non è concepita affatto come integrativa (ruolo che opportunamente già svolge per chi può permettersela), ma come sostitutiva della previdenza pubblica che, per le sue doti di maggiore stabilità delle prestazioni e minori costi di gestione dovrebbe assicurare una pensione almeno dignitosa per tutti coloro che hanno terminato la loro vita lavorativa. L'applicazione della concorrenza e delle libertà individuali in campo previdenziale dovrebbe invece consentire ai lavoratori di poter investire i loro eventuali risparmi aggiuntivi e i contributi aziendali non solo aderendo alla previdenza privata - che oggi è l'unica scelta possibile da cui, peraltro, non si può recedere - ma anche ampliando la copertura pubblica obbligatoria in una misura libera e reversibile. Come effetto collaterale di questa «liberalizzazione» delle scelte previdenziali dei lavoratori, particolarmente interessante nell'attuale situazione di finanza pubblica, ci sarebbe un aumento delle entrate del bilancio pubblico; se solo la metà di quanti oggi non aderiscono già alla previdenza integrativa privata (anche per la comprensibile sfiducia nell'instabilità dei mercati finanziari) aderisse invece alla previdenza integrativa organizzata dal sistema pubblico, ci sarebbe un aumento delle entrate pubbliche pari a circa l'1,4% del pil. Questa sarebbe una riforma socialmente equa, liberale e finanziariamente utile. A volte, volendo, si può.

da il manifesto

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