di Riccardo Luna
Un giorno lo capiremo e quel giorno ci decideremo finalmente a chiedere scusa a quelli come Aaron Swartz: gli hacker. E se il solo leggere una cosa così ci appare assurdo, questo dimostra l’enormità dell’equivoco collettivo che è stato generato negli ultimi trent’anni. Abbiamo fatto passare gli hacker per delinquenti. Criminali. Soggetti pericolosi per gli individui e persino per la pace mondiale.
E’ vero, qualche hacker ha effettivamente commesso delitti, fatto danni, creato disagi, talvolta grandi disagi. Ma è come se avessimo preso una piazza piena di pacifici manifestanti e gli avessimo dato dei “terroristi” perché fra loro ce n’era uno. Gli hacker sono un’altra cosa: gli hacker vogliono cambiare il mondo per renderlo un posto migliore e sono convinti che un computer connesso a Internet sia la strada ideale per farlo.
Era un hacker il giovane Bill Gates quando nel 1975 scrisse BASIC, il primo programma che avrebbe dovuto rendere i personal computer usabili da tutti. Era un hacker (e lo è ancora) Steven “Woz” Wozniak, che fece praticamente a mano l’Apple II su cui il suo amico e socio Steve Jobs nel 1977 ha costruito un’azienda diventata impero. Si sente un hacker e ne va fiero persino Mark Zuckerberg al punto che quando a Facebook festeggiano qualcosa invece di sbronzarsi fanno una cosa che ci chiama “hackaton”, una maratona di hacking in cui per ore e ore si sta lì a scrivere righe di codice sperando che il prodotto finale in qualche modo ci cambi la vita. Ed erano hacker i primi anonimi volontari che sono intervenuti dopo che gli uragani Katrina e Sandy avevano colpito New Orleans e New York.
Insomma, non si può capire la rivoluzione dei computer in cui siamo immersi se non si capisce chi sono davvero gli hacker. Non si può capire, semplicemente perché non ci sarebbe stata. Ventinove anni fa un grande giornalista americano, Steven Levy, pubblicò un librone che ne raccontava le gesta, che risalgono addirittura agli anni ‘50 e proprio al Massachusetts Institute of Technology di Boston finito nella bufera per il suicidio di Swartz. Qui dei giovani ricercatori capirono per primi che un computer poteva servire a scrivere anche testi e fecero quello farebbe ogni hacker: scrissero loro stessi, non per soldi ma per il puro piacere di farlo, un programma che consentiva di farlo. Si chiamava “Expensive Typwriter, macchina da scrivere costosa” (in effetti allora quella macchina costava 120 mila dollari).
Ma quello che davvero hanno in comune gli hacker, il dono più importante che ci hanno fatto e che ci fanno mentre involontariamente li denigriamo, non è un modello di computer o un software per lavorare meglio, ma una filosofia. L’etica hacker, ha scritto la giovane antropologa neozelandese Gabriella Coleman nel suo attualissimo report dal mondo hacker “Coding Freedom”, ci parla di valori come condivisione, apertura, delocalizzazione e di un approccio per cui abbiamo il dovere di mettere le mani sui computer per migliorarli e migliorare così il mondo intero. E per far ciò una cosa deve avvenire preliminarmente: l’informazione deve essere libera. Per questi valori è morto Aaron Swartz.
(Repubblica 18 gennaio)