di Luciano Muhlbauer
Sono passati dieci anni da quel luglio genovese e nel frattempo molte cose sono cambiate. A chi c'era può sembrare ieri, ma in un mondo dove tutto corre e la memoria è sempre più labile un decennio è un tempo maledettamente lungo. E così, la trappola della commemorazione, del come eravamo è sempre in agguato. Cascarci sarebbe però un disastro, perché equivarrebbe alla collocazione di quella stagione di movimenti nel museo delle cere. E, possiamo starne certi, in quel caso i detrattori le darebbero un posto d'onore in cambio dell'espulsione dal tempo presente.
Ebbene sì, perché Genova continua ad essere una spina nel fianco per troppi , sia per quelli implicati nella repressione di ieri che per quelli tuttora convinti che il cambiamento consista nella semplice sostituzione degli inquilini del Palazzo. Quindi evitiamo di regalare ai responsabili operativi e politici delle violenze l'archiviazione storica. Non è una questione che riguarda le sole vittime della violenza poliziesca del 2001, a partire dalla famiglia Giuliani e da chi subì le infamie di Bolzaneto e della Diaz. No, è una questione generale che riguarda l'insieme del Paese, perché il lezzo nauseabondo dell'impunità corrode il rapporto tra istituzione e cittadino e la stessa legalità costituzionale.
Ma appunto, Genova non era soltanto repressione. Anzi, a meno che non vogliamo sposare la tesi che tutta quella violenza, così come le sue anticipazioni di Napoli e Goteborg, fosse il prodotto di qualche eccesso di qualche subalterno, allora dobbiamo rammentare chi e che cosa era quel movimento.
Partito da Seattle, era un movimento giovane, che rompeva argini e schemi, oltrepassava i confini e riformulava il linguaggio dell'alternativa. Contrappose alla globalizzazione liberista la cooperazione globale dei movimenti sociali e la parola d'ordine «un altro mondo è possibile». E soprattutto era in crescita, era un fiume in piena e di fatto andava ad occupare la casella vuota di antagonista al potere. Quel movimento andava dunque stroncato sul nascere. Questo si tentò di fare a Genova. Oggi c'è chi sostiene che l'operazione riuscì, ma non è vero. Anzi, il movimento resistette anche all'11 settembre e si fece carico dell'opposizione alla guerra permanente. Poi seguirono il Forum sociale europeo di Firenze del 2002 e la straordinaria mobilitazione contro la guerra in Iraq del 2003. La fase discendente arrivò soltanto dopo. Insomma, non fu la repressione a spezzare il movimento, fu la politica.
Da allora molta acqua è passata, ma oggi ci troviamo di nuovo di fronte a una fase di protagonismo dei movimenti: la battaglia della Fiom, l'onda studentesca, la lotta degli insegnati, i comitati per l'acqua pubblica, la primavera delle elezioni amministrative e dei referendum, la Val di Susa, ecc. E anche oggi, come ieri, invece di coglierne le potenzialità, molta parte dell'opposizione politica sembra piuttosto spaventata ed intenta a normalizzare, come indicherebbero il clima da unità nazionale attorno alle politiche anticrisi o, su un altro piano, la firma sotto l'accordo interconfederale da parte della Cgil.
Problemi analoghi, dunque, ma anche attori e scenario mutati, perché i movimenti non sono più gli stessi. C'è una nuova generazione che il 2001 genovese lo conosce soltanto per sentito dire e i nodi della globalizzazione liberista sono ormai venuti al pettine. Ecco perché non ha senso tornare oggi a Genova per commemorare il movimento di ieri e perché occorre invece essere sufficientemente lucidi per tentare di connettere la stagione dei movimenti di ieri a quella di oggi, di costruire ponti, di individuare obiettivi e iniziative e di far tesoro delle esperienze passate. Tra oggi e domenica a Genova ci saranno sufficienti luoghi e momenti dove tentare di farlo. Il resto dipende da noi.