rosarnodi Alessia Candito

Sono passati due anni dalla rivolta di Rosarno. Quel sette gennaio di due anni fa, i colpi di pistola sparati contro alcuni dei braccianti ivoriani lungo la statale 18 fecero esplodere la rabbia e l'indignazione di un'intera comunità, di giorno quotidianamente sfruttata nei campi e di notte costretta a sopravvivere in rifugi di fortuna, in condizioni ai limiti dell'umano. Quei lavoratori - sfruttati, umiliati, senza diritti né identità - divennero i protagonisti di una rivolta che fece accendere i riflettori sulla tragedia del bracciantato e del lavoro agricolo in Italia, schiacciato fra il ricatto della grande distribuzione e l'arroganza del caporalato al soldo della criminalità organizzata. Giornate di rabbia, di frustrazione, di paura, conclusesi con la deportazione di molti dei protagonisti in altre zone d'Italia.

Ma anche l'inizio di un percorso di lotta che oggi porta braccianti, produttori, portuali e ambientalisti a unirsi per "riappropriarsi della terra" e allo scopo si sono dati appuntamento nel luogo dove più urgente è questa necessità: Gioia Tauro e la Piana, oggi come in passato, laboratorio dello sfruttamento senza sviluppo e senza prospettiva, divenuto ancora più selvaggio sotto la scure della crisi.

Mentre il porto langue, tenuto in ostaggio dalla Mct, e l'agricoltura è in affanno, l'unica soluzione proposta da istituzioni regionali e nazionali è aprire la strada a investimenti distruttivi per il territorio: il raddoppio dell'inceneritore di Gioia, la centrale turbogas a Rizziconi e la costruzione di un pressoché inutile rigassificatore che la società Lng Medgas intende realizzare nel retroporto dello scalo. In fondo alla catena rimangono gli sfruttati di sempre: i braccianti africani, tornati a Rosarno per la raccolta degli agrumi che «paradossalmente vivono in condizioni peggiori rispetto a quelle di due anni fa - dice Peppe Marra, del Csoa Cartella - quando avevano almeno un tetto sulla testa, mentre oggi sono costretti a vivere in casolari isolati, privi di qualsiasi servizio». Gli stessi ghetti di allora, dunque, ma con una concentrazione minore. Per non dare nell'occhio. E continuare a sperare in una giornata di lavoro in campagna.

«Le condizioni di sfruttamento sono quelle di sempre e la legge Bossi-Fini continua a essere una mannaia sulla testa di tutti, regolari e non». Impiccati alla necessità di avere un lavoro per mantenere o ottenere il permesso di soggiorno, i braccianti africani sono costretti ad accettare qualsiasi forma di sfruttamento «e questo dumping sociale - continua Marra - non fa che creare delle barriere anche con i lavoratori italiani».

Lo sa bene Ibrahim, arrivato quattro anni fa dalla Costa d'Avorio, che dice: «L'Italia non è tutta razzista, ma è innegabile che una parte lo sia. E questo si deve anche all'assoluta mancanza di una politica di integrazione da parte del governo. Sembrano essersi dimenticati di quando nel '900 erano gli italiani ad emigrare, ma dubito che negli Stati Uniti, in Brasile o Argentina abbiano mai ricevuto il trattamento che oggi riservano a noi, sfruttati per pochi euro e costretti a vivere in condizioni disumane, con la costante paura di perdere il permesso di soggiorno». Insieme ai braccianti africani, a pagare il prezzo dello sfruttamento scellerato del territorio ci sono anche i portuali, in cig a rotazione da mesi, ostaggio della Mct - «che pur avendo dirottato altrove i propri investimenti, si rifiuta di lasciare le banchine a altri potenziali clienti», ricorda Carmelo Cozza, segretario regionale del Sul, anche lui in cassa. «Il Porto qui da noi è come la Fiat a Torino: se perdono il lavoro 1600 persone è una catastrofe per tutto il territorio». Eppure la Regione, che ha da tempo in mano oltre 400 milioni destinati al rilancio del porto, ma non ha mai prodotto un piano di investimenti, continua a latitare. E altrettanto ha fatto il governo, Berlusconi prima e Monti oggi.

Ma a subire le conseguenze della mancanza di un progetto politico che rilanci e ristrutturi l'attività agricola e portuale, è l'intera comunità della Piana, che, ricorda il consigliere provinciale del Prc Giuseppe Longo, «negli ultimi anni ha registrato un aumento drammatico di casi di tumori e sclerosi multipla. La Calabria è sempre stata tagliata fuori dai piani di sviluppo nazionali e regionali, quello che è stato fatto qui è solo rapina e speculazione di ogni tipo. E le conseguenze le paghiamo tutti».

Ed è per questo che Africalabria, insieme a Equosud-Sos Rosarno e San Ferdinando in movimento, nel giorno dell'anniversario della rivolta, ha convocato tutti nella seconda area industriale di Gioia, un grande campo circondato da agrumeti e macchiato dagli scheletri dei capannoni industriali, realizzati per accaparrarsi i finanziamenti regionali e mai utilizzati. «Questa è la riappropriazione simbolica di un luogo emblematico - dice Arturo Lavorato di Africalabria - Qui vorrebbero far sorgere il rigassificatore, un progetto che inibirebbe lo sviluppo della portualistica, avvelenerebbe la terra e gli agrumeti e metterebbe una pietra tombale su una delle poche strade che si potrebbero percorrere per rilanciare questo territorio: dalla diversificazione dell'agricoltura dalla monocultura industriale - strozzata dalla grande distribuzione - a una produzione più vincolata alle esigenze e alle potenzialità del comprensorio».

I braccianti sono l'ultimo anello di questa lunga catena di sfruttamento, speculazione e distruzione del territorio, vittime di un sistema che li mette a margine della società, creando le condizioni di disagio sociale che sono terreno fertile tanto per la criminalità organizzata come per l'esplosione della violenza. «È per questo che noi abbiamo lanciato progetti come SosRosarno e Ingaggiami contro il lavoro nero, che ci permettono non solo di garantire condizioni dignitose e l'emersione dal lavoro nero ai braccianti, ma anche il pagamento di un giusto prezzo ai piccoli produttori».

All'iniziativa lanciata da Africalabria e dalle associazioni della zona, non solo hanno aderito e partecipato tutti i circoli di Rifondazione del reggino, ma ha voluto mandare il proprio messaggio anche il segretario nazionale Paolo Ferrero. «Come Prc appoggiamo ogni lotta di lavoratori e disoccupati, italiani e migranti, che insieme si oppongono alla crisi e alla manovra finanziaria - scrive Ferrero nella nota - Non dimentichiamo Rosarno, lottiamo insieme per abolire la Bossi Fini e la Legge 30: su la testa».

Da Liberazione 08/01/2012

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