di Stefano Galieni
Da Gradisca D’Isonzo a Trapani, passando per Torino, Milano, Bologna, Roma, Bari, Crotone in contemporanea molti parlamentari delle opposizioni hanno ieri varcato le soglie dei centri di identificazione ed espulsione, sono entrati oltre le sbarre per riprendere l’invito lanciato loro dai giornalisti “LasciateCIEntrare”. Dal 1 aprile scorso infatti, il ministro dell’interno Maroni ha disposto, mediante una circolare interna, che per gli stessi deputati e senatori è stato difficile reperire, che ad entrare in tutti i luoghi di accoglienza e spesso di segregazione di migranti e profughi, potevano essere soltanto gli operatori di alcune organizzazioni umanitarie internazionali con cui erano già in vigore rapporti. Gli altri, i collaboratori dei parlamentari, gli operatori dei mezzi di informazione, gli esponenti di associazioni antirazziste, di forze politiche e di sindacati, devono restare fuori.
La ragione accampata “l’emergenza africa del nord”, una affluenza di persone che rende ogni soggetto esterno un “intralcio” al lavoro e alle attività dei gestori dei centri. Pochi giorni dopo dallo stesso ministero, veniva emanato un decreto, convertito in legge alla camera e non ancora al senato in base al quale, recependo gli elementi peggiori della “direttiva rimpatri” del 2008, dell’U.E., si possono prolungare fino a 18 mesi i tempi di trattenimento. I giornalisti non hanno accettato la logica del sentirsi “intralcio” trattandosi di una limitazione assurda dei diritti sanciti con l’articolo 21 della costituzione e hanno manifestato fuori dai centri mentre le delegazioni di parlamentari compivano il proprio mandato ispettivo. Al di là delle differenze peculiari di ogni singolo centro, comune è stata la valutazione emersa e fortemente negativa dell’intero sistema di detenzione amministrativa e di espulsione. Con approcci diversi però, derivanti da sensibilità e maturazioni forse ancora in divenire, se per Rosa Villecco Calipari, il cie di Ponte Galeria, come gli altri è un lager, se Furio Colombo è rimasto fortemente turbato da storie personali che dimostravano nella loro concretezza la dissoluzione stessa dei concetti basilari per definire democratico uno stato, per altri come Di Giovan Paolo bisognerebbe tendere a tornare ad un tempo massimo di trattenimento di 30 giorni. Ma il dato positivo con questa giornata è da registrarsi nel fatto che si è interrotta la logica del muro, tutt’ora ad occuparsi dei centri, degli uomini e delle donne che vi sono rinchiusi e che sovente patiscono vergognose e documentate angherie, ci sono in Italia poche persone: operatori dell’informazione per lo più indipendente, antirazzisti che spesso hanno anche pagato in termini di denunce e repressione l’interesse mostrato nei confronti dei luoghi oscuri. Da oggi sarà difficile per molti dire io non c’ero o non sapevo; se ad entrare sono stati quasi soltanto i parlamentari, fuori dai centri c’erano pezzi di società civile organizzata che hanno incrociato, seppur da lontano, il proprio sguardo con quello dei reclusi. Ci sono stati momenti di tensione e di forte impatto emotivo, i numeri si sono trasformati in volti, in storie personali fatte di percorsi migratori e di inclusione falliti che hanno incontrato come uniche risposte lo sfruttamento e la reclusione. A Trapani, in contrada Milo, i parlamentari sono entrati nel centro nuovo di zecca, alte sbarre gialle che ingabbiano ad oggi circa 150 persone ma da cui già alcuni sono riusciti a fuggire, a Gradisca, le autorità prefettizie all’inizio non volevano permettere l’accesso, a Modena, insieme ad una parlamentare è riuscita ad entrare Cecile Kyenge Kashetu, portavoce della Rete Primo Marzo, che è uscita indignata da quello che è ritenuto il miglior cie d’Italia dicendo:«Ma a cosa serve? Perché le persone vi debbono stare rinchiuse?». Attimi di tensione a Torino dove esponenti dei movimenti hanno contestato i parlamentari del Pd che sembravano accorgersi con eccessivo ritardo dell’oscenità del centro di Via Brunelleschi. La richiesta di trasparenza si è trasformata in molte dichiarazioni in esplicita volontà di procedere alla chiusura dei centri, è accaduto a Bari e a Milano, comunque sembra potersi avviare una complicata fase di riflessione che forse ha visto il suo elemento paradigmatico a Roma. A Ponte Galeria, erano numerosi i parlamentari presenti e molti i giornalisti, gli attivisti e i dirigenti di associazioni, forze politiche e sindacali. Alla vista dei parlamentari un gruppo dei reclusi è immediatamente salito sui tetti della struttura per far sentire le proprie richieste di libertà e di diritti. Striscioni preparati alla bene e meglio, slogan, il tutto mentre si svolgeva una lunga ispezione. I parlamentari ne sono usciti turbati, la stessa Livia Turco, il cui nome è associato alla creazione stessa dei primi centri, ha espresso parole molto dure nei confronti di ciò che ha avuto modo di vedere. Una critica serrata all’intero sistema di detenzione, modalità di trattenimento e di espulsione, tempi e strutture, una denuncia necessaria ma forse insufficiente perché si arena verso la riproposizione di modelli legati ad una legge pensata e attuata 13 anni fa. Ma le questioni più spinose connesse all’immigrazione sembrano poter tornare nell’agenda politica, mercoledì 27 luglio due parlamentari del Pd presenteranno un disegno di legge di un solo articolo per l’abrogazione del reato di immigrazione clandestina, in settembre si discuterà pubblicamente di legge sulla cittadinanza e di diritto di voto, segnali insomma da cogliere anche in vista di una mobilitazione mondiale per il 18 dicembre prossimo. Vanno aperti insomma gli spazi per ridiscutere daccapo il sistema di inclusione sociale, le priorità verso cui far convergere le scarse risorse economiche (repressione o accoglienza?), ponendo sul terreno pubblico di una società forse più matura di quanto si creda le dinamiche di cambiamento che intercorrono. Da ultimo, ma non per importanza, la giornata si è rivelata importante anche per il ruolo svolto dai mezzi di informazione: l’adesione alla campagna e l’impegno mostrato dalla Fnsi e dall’Ordine dei giornalisti, possono tradursi in un elemento non episodico, possono costituire un invito agli operatori della comunicazione ad impegnare le loro telecamere e le loro tastiere verso questi luoghi di sottrazione del diritto. Lo stesso ricorso presentato dallo studio legale Lana, avverso il divieto di far entrare in alcuni centri due giornalisti, può divenire ennesimo strumento di pressione. Aprire un varco nelle mura dei cie, in luoghi dove “il tempo è eterno” come ha affermato un recluso, per cercare di fare passi avanti in uno stato di diritto. Uno stato di diritto che per il Prc non può contemplare l’esistenza stessa dei Cie.
25/07/2011