di Marco Sferini
Le dichiarazioni del ministro Fornero sul tavolo di confronto tra esecutivo e sindacati in materia di lavoro suonano piuttosto come un secco ultimatum, come una conditio sine qua non senza la quale ogni intesa risulterebbe impossibile.
L'aggressività verbale della ministra prende il campo proprio nell'attacco alla controparte: è l'attacco di un governo del capitale contro le richieste dell'associazione di rappresentanza dei lavoratori e delle lavoratrici. Fornero lo dice senza mezzi termini: cosa mai porterebbe Palazzo Chigi ad investire una "paccata di miliardi" in un contesto fatto di "no"? Praticamente la ministra vuole degli assensi belli chiari, forti e magari preventivi, così si risolve una volta per tutte il problema delle basi su cui condividere appunto le regole del mercato del lavoro.
Il sindacato dice "sì" subito, con convinzione o meno poco importa, e poi arrivano i quattrini. Davvero un bel modo di trattare, ammesso che di trattativa si possa parlare sul serio. Ma il modello, in fondo, somiglia sempre più al ricatto di Marchionne ai suoi operai, a quella parte produttiva della grande azienda torinese che si vede trattata, gestita e usata come nel mondo dello schiavismo nordamericano del fine ottocento, nell'epico scontro tra nord e sud, tra confederati e unionisti.
Qui il governo, oggi, ci manda a dire che anche gli ammortizzatori sociali, la tanto celeberrima cassa integrazione tra i tanti, sono di troppo e vanno ridotti: dagli attuali 36-48 mesi odierni si scenderebbe a 12-18 mesi. Insomma, un anno e mezzo al massimo di cassa e poi tanti auguri a chi resta a casa per via della cattiva gestione capitalista di una impresa o per via di qualche speculazione finanziaria finita male.
Il rischio di impresa esiste davvero ancora? E' mai esistito in un sistema di questo genere, dove la vita delle persone conta solo se messa in relazione strettissima con lo sfruttamento profittuale generatore dei dividendi per gli azionisti?
E, se da un lato la diminuzione della cassa integrazione non piace al sindacato appunto perchè riduce le possibilità di gestione delle crisi aziendali viste dalla parte della mano d'opera, sembra non piacere nemmeno alle aziende medio-piccole perché aumenterebbe esponenzialmente per loro i costi per il pagamento dell'ammortizzazione sociale.
Insomma, la riforma del lavoro prevista da Mario Monti e da Elsa Fornero non piace quasi a nessuno, tranne che alle grandissime imprese del Paese dove è quasi sempre arrivato l'aiuto di Stato quando erano sulla soglia dei tribunali con i libri contabili tra le mani, dove arriva anche ora questo aiuto facendo pagare i costi di un riequilibrio dei conti sempre all'anello più debole e corroso della catena produttiva.
In questo contesto l'unità sindacale certamente è utile, ed è altrettanto utile avere la parte più avanzata socialmente del sindacato (la FIOM, tanto per capirci) un gradino più in sù nella gestione della lotta fino ad arrivare all'annuncio della possibilità di una proclamazione di uno sciopero generale.
Il presidente del Consiglio, fresco del colloquio con Angela Merkel, assicura che la fase più acuta della crisi è ormai trascorsa, ma i prezzi aumentano e i salari si ritraggono. La gente, dice l'Istat, investe la gran parte del salario nel pagare le bollette aumentate più che nei bisogni essenziali: mangiare, vestirsi, curarsi.
Questa trascuratezza delle necessità quotidiane porta inesorabilmente ad una pauperizzazione sempre più vistosa, evidente e che non segnale per nulla la fine della fase acuta di una crisi economica che è, invece, a pieno regime e che – come più volte ci ha spiegato Emiliano Brancaccio – si fa sentire proprio nei "bassi salari", nella loro ritrazione, nella scomposizione ineguale di ciò che si riceve il 27 del mese e che finisce sempre più tra le braccia dell'IVA, cioè di una tassazione indiretta che colpisce indiscriminatamente ricchi e poveri e che, pertanto, facendo parti uguali tra diseguali, penalizza i più deboli e poco infastidisce le tasche dei più benestanti.
Del resto non possiamo nemmeno appellarci ad una sorta di "buon senso" del governo Monti perché sappiamo bene che l'esecutivo è stato messo in essere per volontà del grande capitale europeo, di quella Banca Centrale che ha dettato a Napolitano l'agenda economico-politica del Paese e che l'ha praticamente commissariato nelle mani di Bruxelles.
L'unica cosa che possiamo concretamente fare è opporci. Opporci sempre socialmente, da sinistra. Costruire una grande opposizione che però non viaggi sulle parole del populismo e del qualunquismo o di mal di pancia più o meno acuti di giornata, ma che si fondi su una riconoscibilità dei protagonisti della crisi economica e che sappia individuare nel governo l'esecutore delle volontà dei gestori dei grandi giri di valzer di dollari, yen ed euro.
L'opposizione che va costruita deve essere di massa. Non può più essere compartimentata, divisa per settori. L'opposizione sociale non può che avere le caratteristiche culturali della sinistra, perché le proposte di uscita dalla crisi o sono sociali(ste) o non sono. Ogni altra proposta è un'attenuazione degli effetti disastrosi delle contorsioni borsistiche e delle evoluzioni acrobatiche dei flussi di denaro incontrollati da borsa a borsa.
E, a sua volta, la sinistra non può tergiversare su questo fronte perché è l'essenza su cui la sua storia si è costruita come storia di liberazione dell'uomo dal circuito perverso del sistema delle merci. Non è compito del sindacato superare il capitalismo, per questo non dobbiamo aspettarci dalla Cgil una dichiarazione di antiliberismo. Ma dal sindacato dobbiamo pretendere un ruolo "di classe", lo devono esigere i lavoratori, contrastando le spinte corporative, contrastando certe tendenze all'accondiscendenza rispetto alle proposte di moderazione che altro non sono se non l'abbandono della contrattazione e il ritorno alla più bassa delle concertazioni possibili.
Opposizione sociale di sinistra, contrattazione e, se occorre, sciopero generale. La crisi e il suo agente di governo si affrontano purtroppo senza sconti, anche perché da scontare non c'è rimasto davvero quasi nulla.