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di Marco Sferini
Muro contro muro: questo è il volto che il governo dei professori mette avanti a poche ore dal tirare le somme sulla riforma del mercato del lavoro. Sono moltissimi gli elementi...

contraddittori che proprio dalle percentuali e dalle cifre emergono e che fanno dire alla CGIL un secco “no” a questa impostazione frontale, priva di dialogo che viene mantenuta dall’esecutivo senza troppe emozioni o suggestioni.
E’ lapidario Mario Monti: “Sull’articolo 18 la questione è chiusa”, dice il bocconiano presidente del Consiglio. In casa PD alcuni tergiversano, D’Alema parla di riforma pasticciata, Bersani si esprime negativamente e annuncia che il suo partito chiederà dei ritocchi al decreto del governo. Ma c’è anche una parte dei democratici che, invece, digerisce volentieri il depotenziamento dell’articolo 18 e che vede nel rigorismo montiano e forneriano l’unica via per uscire dalla crisi con un sostegno al padronato non da poco. Difficile dire quale area del PD sia a favore e quale contro la riforma di Monti. Si può dire che, ad esempio, Enrico Letta è a favore. Stefano Fassina no. Ma nel partito dell’indefinizione permamente di linea è d’altronde naturale, normale e scontato che un tema come questo getti un po’ tutti sull’orlo di una crisi di nervi.
Fatte queste considerazioni sul panorama in cui viene vissuta questa riforma del mercato del lavoro, penso sia doveroso dire davvero una parola di verità, di quella verità che – almeno così la vedo io – è deve essere dalla parte dei lavoratori e delle lavoratrici e di tutti quelli che vanno (o dovrebbero) andare in pensione dopo una vita di fatica e di salari più o meno pagati.
Ho una domanda da fare e mi do anche una risposta, credo non retorica, ma in forma di analisi di quanto accade. E la domanda è questa: credono davvero Monti e Fornero di provvedere al risanamento dei conti del Paese e al potenziamento di tutta la rete produttiva, industriale e al suo indotto eliminando delle garanzie occupazionali, falciando le tutele e diminuendo quindi i diritti tanto del singolo lavoratore quanto dell’insieme collettivo di una azienda?
Perché mai l’articolo 18 fa così paura? Forse perché è un argine troppo importante non tanto alla licenziabilità su giusta causa, quanto alla licenziabilità per ingiusta causa. Il licenziamento disciplinare, quindi quello che viene messo in pratica dal padrone quando un suo dipendente non ottempera alle norme contrattuali (mancanza sul posto di lavoro, danneggiamento di macchinari e quanto di altro sia riscontrabile oggettivamente), dipende dalla crisi economica? Sembrerebbe di sì, secondo le parole del ministro Fornero. Ma se bastasse la cancellazione di questa norma per cancellare gli effetti devastanti della crisi ci troveremmo non solo davanti ad una panacea di tutti i mali, ma ad un assurdo economico, ad un sovvertimento delle leggi del liberalismo e del mercato capitalistico. Come può una norma che tutela dal licenziamento arbitrario, quindi senza una giusta causa, essere a fondamento del dissesto aziendale?
Eppure la tesi dei professori è questa: si permetta alle aziende di introdurre una sorta di “flessibilità in uscita”, per cui i licenziamenti divengono più facili da formulare e da applicare, senza appunto il fastidioso articolo 18.
E allora si dice: beh, in fondo proponiamo il licenziamento ma con un indennizzo per il lavoratore. Invece del reintegro in fabbrica o in qualunque altro posto di lavoro, gli si dà un po’ di soldi e buona notte ai sognatori. E’ questa una parte della riforma che il governo vorrebbe introdurre che risulta davvero insidiosissima e che produrrebbe un pregiudizio enorme sulla stabilizzazione anche dei contratti di apprendistato o di quelli che comunque – cambiando la formula non cambia poi di molto il prodotto finale – restano lavori a tempo determinato.
E su questo terreno Confindustria rimprovera al governo di voler rendere stabile ciò che non deve diventare stabile. Quindi Monti e Fornero introducono la “flessibilità in uscita” e il padronato spinge per mantere a tutto tondo anche quella “in entrata”.
L’inferno è certamente più vivibile del futuro che viene prospettato a qualsiasi lavoratore e a qualsiasi lavoratrice. Avremmo così dei bilanci aziendali magari con la voce che riguarda proprio il gettito stabilito per il personale in uscita, quello che si preventiva di licenziare secondo gli aggiustamente all’articolo 18.
E tutto questo in nome della governabilità aziendale della crisi economica che i lavoratori non hanno causato e che, semmai, col loro quotidiano lavoro (che, a volte vale la pena ricordarlo, è comunque lavoro sottopagato perché deve produrre quel plusvalore che consente alla fine del giro la generazione del profitto) hanno largamente evitato a questa classe dirigente di imprenditori di affrontare prima di subito.
Un altro elemento francamente poco comprensibile da un governo dalle linee così “compassate” e “british” è la durezza repentina di queste ore proprio sull’articolo 18. Da elemento sottotono, l’articolo in questione è tornato prepotentemente alla ribalta quando Monti, davanti alle proteste generali in moltissime piazze italiane e davanti anche alle richieste di partiti e sindacati, ha applicato la sua serrata, ha detto “stop!”. Ne discuterà il Parlamento, è stata la proposizione fornita dalla ministra Fornero ai giornalisti che chiedevano il perché di questa chiusura così immediata, quasi inaspettata e che ha causato la giusta rottura del tavolo delle trattative da parte della CGIL.
Non resta che lo sciopero generale. Aggiungo che, accompagnato allo sciopero generale, va costruito ora per ora, giorno per giorno un grado sempre crescente di mobilitazione operaia, studentesca, sociale di carattere trasversale, che intersechi tutti i settori del Paese, che unisca finalmente le lotte e che dica che la stagione dei professori è chiusa e che questo governo arrogante, questo agente della BCE, questo provocatore antisociale deve essere messo fuori da Palazzo Chigi con una paralisi del Paese che non abbia visto precedenti sino ad ora.
Ciò che non fecero i barbari, fecero i Barberini. Si diceva un tempo… Ciò che non fece Berlusconi, rischia oggi di riuscire a farlo Mario Monti. E sarebbe grave, e pregiudicherebbe qualunque rapporto futuro di dialogo e di intesa per un miglioramento delle condizioni disastrose in cui versa l’Italia, che tutto questo avvenisse con la sola opposizione parlamentare della Lega Nord (per fini puramente strumentali di rinata verginità politica…) e dell’Italia dei Valori. A buon intenditor, poche parole.

 

 

 

da Lanterne rosse, 22 marzo 2012

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