di Riccardo Bellofiore e Giovanni Vertova
L'obiettivo dell'università non deve essere lo studente come prodotto appetibile per il mondo del lavoro, o un sapere funzionale a esigenze «just in time» delle imprese.
Per questo urge riprendere una critica dei saperi. E va contestato alla radice l'impianto della riforma Gelmini
Vorremmo proseguire la discussione aperta da Burgio e Marella sulla valutazione. Crediamo ci si debba innanzi tutto chiedere da dove venga questa centralità della valutazione. Si è partiti da due problemi reali: il reclutamento e gli avanzamenti di carriera: questione incancrenita dall'indecenza baronale e dalla gestione localistica dei concorsi, da cui la docenza di sinistra non si è smarcata davvero; la presenza di docenti dalla scarsa produzione scientifica. Nel frattempo l'università era sottoposta a riforme continue che, in nome della internazionalizzazione (e a dispetto di una tradizione italiana originale e di qualità che costituiva, si direbbe oggi, un asset competitivo), facevano prevalere una logica finanziaria e taylorista. Si pretende di parametrare quantitativamente uno "sforzo" formativo (misurato in ore/crediti/debiti) sempre più parcellizzato. Più il processo è andato avanti, più la parola d'ordine è diventata quella di relegare la docenza che non rispetta gli standard in Atenei di serie B. Il discorso viene declinato nel linguaggio economicistico di incentivi/disincentivi e della concorrenza tra Atenei. L'esito, del tutto pianificato, è un circolo vizioso di divaricazione di qualità tra Atenei, e la spaccatura tra università dedicate solo alla didattica e altre di "eccellenza".
È qui che si colloca l'attuale Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR) 2004-2010: si notino le maiuscole, non si sa se per subalternità all'inglese o per proclamare un ipocrita, falso rispetto verso i termini maiuscolati. Sono da poco usciti, per le varie aree in cui è stata "spaccata" la ricerca, i Criteri a cui si atterranno i Gruppi di Esperti della Valutazione (GEV) del VQR. Ovunque si vuole ridurre al minimo la discrezionalità dei valutatori.Nelle discipline economico-statistiche si privilegiano criteri bibliometrici, con cui si pretende di misurare la qualità e l'impatto della ricerca con tecniche matematico-statistiche. Al primo posto ci sono gli ordinamenti delle riviste secondo graduatorie per classi stabiliti da sottogruppi del GEV. Un ruolo parziale ha la peer review (il giudizio dei pari mediante revisori anonimi)effettuata in sede dello stesso VQR. Si promette una considerazione di volumi e capitoli secondo rilevanza, originalità, internazionalizzazione, diffusione, prestigio accademico dell'editore.
Nelle discipline umanistiche e giuridiche, su cui sono intervenuti Burgio e Marella, i libri hanno un ruolo più centrale, e vengono valutati in base alla casa editrice. Burgio e Marella insistono sulle conseguenze a danno della piccola e media editoria. Hanno molte ragioni. Pensiamo sia però sbagliato tacere che qui c'è una distorsione grave. L'editoria accademica italiana è sovvenzionata: chi pubblica deve pagare l'obolo di destinare i propri fondi di ricerca alla pubblicazione del proprio libro. Vale per i piccoli editori, ma non di rado anche per i medi e grandi. Il mercato è drogato: chi ha più fondi (dunque, chi ha più potere dentro le varie sedi universitarie) è avvantaggiato. Pensare di risolvere questo problema stilando una graduatoria delle case editrici è illusorio, esattamente per le ragioni addotte da Burgio e Marella: la scarsa trasparenza, la spuria gerarchia tra ricercatori e case editrici, l'impoverimento del panorama culturale, la colonizzazione del privato. La medicina aggravala malattia, non la cura.
Le discipline economiche sono paradigmatiche per quel che riguarda il ruolo delle riviste nel VQR. La valutazione indiretta tramite indici bibliometrici richiede grande cautela, perché lo strumento è fallato all'origine, e dovrebbe svolgere un ruolo secondario. Gli ordinamenti qualitativi delle riviste sono costruiti sulla base dell'idea che vadano valorizzate quelle che garantiscono una "valutazione diretta" (l'effettiva lettura) per il tramite della peer review. Ciò presuppone quanto si fa innocentemente finta di non sapere. Che nelle scienze sociali e umanistiche (ma nelle scienze "dure" è davvero poi tanto diverso?) non esista una scissione radicale tra "stili di ragionamento scientifico", o se preferite "paradigmi", in conflitto tra di loro e in qualche misura incommensurabili. La valutazione, pretendendo che quel conflitto e quella incommensurabilità non esistano, privilegerà i vari mainstream. Inoltre, la peer review penalizza per costituzione ogni pensiero originale e innovativo all'interno delle diverse scuole. Non vi è sostituto alla responsabilità di un giudizio personale (non anonimo) e motivato (dunque disteso). Tutto il contrario del VQR, dove i giudizi sono anonimi, vincolati a un numero limitato di parole.
Il nodo di fondo è semplice. Va garantita la pluralità, non il pluralismo. Il pluralismo è l'atteggiamento mendicante delle eterodossie che supplicano di non essere cancellate. La pluralità impone il riconoscimento di visioni, paradigmi, stili in radicale lotta per l'egemonia. Un mondo dove non si può dare per principio "consenso unanime": dove anzi il dissenso è un valore e le minoranze una risorsa. La conseguenza è doppia. Nel reclutamento, un criterio dirimente dovrebbe essere la conoscenza da parte del candidato vincente dei paradigmi in conflitto (oggi lo è la conoscenza del solo pensiero dominante). Nella valutazione, non è possibile costruire alcun meccanismo che non discenda da un progetto culturale. Qui si scontrano ideologie e interessi diversi - noi diremmo di classe. L'obiettivo dell'università non deve essere lo studente come "prodotto" appetibile per il mondo del lavoro (in cambiamento continuo), o un sapere funzionale a esigenze just in time (subito obsolete) delle imprese. Si deve piuttosto elaborare (e offrire agli studenti) una conoscenza "critica" sull'intero arco del sapere, che li avvantaggerebbe anche sullo stesso mercato del lavoro. Se le cose stanno così, andava ieri organizzato un sabotaggio del VQR così come si è profilato, e ne va oggi contestato alla radice l'impianto. Urge riprendere una critica dei saperi.
da Il Manifesto, giovedì 22 Marzo 2012