di Luigi Ficarra
Lo Statuto dei lavoratori è una legge di attuazione costituzionale. Con esso si afferma che i lavoratori non vendono solo la merce forza lavoro al capitale ma sono anche soggetti di pieno diritto come stabilito...
dall'art. 1 ("libertà di manifestare le proprie opinioni politiche e sindacali nei luoghi di lavoro nel rispetto della Costituzione: art. 2 cost."); dall'art. 8 ("divieto di indagini, al momento dell'assunzione e dopo, sulle opinioni dei lavoratori"); dall'art. 14 ("diritto di costituire associazioni sindacali nei luoghi di lavoro", e di "costituire in essi - art. 19 - rappresentanze sindacali"); dall'art. 18 ("diritto di essere reintegrati nel posto di lavoro, con emanazione del relativo ordine da parte del giudice, quando viene accertata la illegittimità del licenziamento intimato dal c.d. datore di lavoro, in realtà fruitore dello stesso"); dall'art. 20 ("organizzare assemblee di lavoratori nelle fabbriche e negli uffici"); dall'art. 28 ("diritto di far reprimere dal giudice ogni condotta antisindacale posta in essere dal padrone"); dall'art. 2 che vieta al padrone di impiegare le "guardie giurate" per controllare l'attività dei lavoratori, e dall'art. 4 che vieta l'uso di impianti audiovisivi per il controllo dei medesimi.
Il Parlamento ha introdotto questa legge il 20 maggio 1970 sull'onda, certo, di un grande movimento di massa sviluppatosi nel paese specie nel biennio 1968-'70; ma intanto ha potuto farlo perché la Costituzione del 1947-48, scritta col sangue dei martiri della Resistenza, lo consentiva, perché in essa sono affermati dei principi aperti al ad un ordinamento di tipo quasi socialista. L'art. 41 cost. pone dei limiti e dei vincoli molto netti alla iniziativa economica privata, prescrivendo che <non può svolgersi in...modo da arrecare danno alla asicurezza, alla libertà, alla dignità umana>. L'art. 4 cost. afferma che "il lavoro è un diritto del cittadino" e che <la Repubblica riconosce e promuove le condizioni che lo rendano effettivo> - (altro che licenziamenti facili). E l'art.1 cost. afferma che la Repubblica italiana "è fondata sul lavoro", ponendo questo non come semplice merce compravenduta nel mercato e ad esso soggetta, come ha espressamente detto il 17 marzo scorso il liberista Mario Monti, ma come l'attività primaria della società, la cui tutela quindi è prioritaria a quella dell'impresa. Ecco perché l'art. 18 dello Statuto prescrive che il lavoratore licenziato illegittimamente ha diritto di ritornare nel suo posto di lavoro : infatti, la Costituzione afferma che è un soggetto che "ha diritto al lavoro" e che la sua libertà e dignità di uomo viene prima della libertà della <sacra> proprietà privata e, quindi, non è monetizzabile come potrebbe essere solo se esso si identificasse con la merce forza lavoro venduta al capitalista. Ciò scandalizza il premier Monti e tutti i chierici (intellettuali), una volta di sinistra, ed oggi assieme a lui schierati a difesa del mercato e dei principi dell'economia capitalistica ("La trahison des clercs", il tradimento degli intellettuali, purtroppo continua, come scrisse Julien Benda). Marchionne, la cui filosofia è stata fatta propria anche dalla Federmeccanica, ha ridotto a strame, nelle aziende Fiat, i principi basilari affermati dalla Costituzione, dall'art. 39 cost. relativo alla libertà sindacale, agli artt. 14, 19, 18, 20 dello Statuto dei lavoratori. Marchionne, elogiato pubblicamente da Monti nel gennaio 2011 sul Corriere della Sera assieme alla Gelmini, per le sue scelte antidemocratiche e liberticide sul piano della contrattazione, di fronte alla sentenza di un Tribunale della Repubblica che gli ha ordinato il reintegro di due lavoratori illegittimamente licenziati, ha risposto col detto fascista "me ne frego": io li pago, ma non li faccio rientrare, nego e calpesto il loro diritto al lavoro, la proprietà privata è sacra e non si tocca.
La modifica dell'art. 18 su cui ieri Monti e Napolitano, - (il quale ultimo si muove ormai apertamente non più come Presidente della Repubblica ma come l'agit prop di questo governo del capitale finanziario) -, hanno avuto l'assenso dei sindacati collaborativi, Cisl ed Uil, dice proprio questo: l'art. 41 costituzione, e così pure gli artt. 4 ed 1 della medesima, sopra riportati, sono carta straccia, vanno accantonati, e prima di modificarli formalmente, come diceva Berlusconi, li devitalizziamo: la tutela della "libera" proprietà privata viene prima del diritto al lavoro. Il lavoratore licenziato può solo ottenere, come un servo, la monetizzazione del suo licenziamento dichiarato illegittimo: non può pretendere, come fosse un cittadino, di rientrare in fabbrica limitando così la libertà, essa sì <>, del padrone e del suo ferino potere.
E' una modifica che era già iniziata con l'art. 8 del d. l. 138/2011, norma che consente di derogare con la contrattazione aziendale non solo ai ccnl ma anche alle disposizioni dello statuto dei lavoratori e ad altre leggi a tutela del lavoro. E che è stata mantenuta dal governo Napolitano-Monti; il quale ultimo, anzi, col d. l. n. 1/2012, e la circolare applicativa di esso n. 32/2012, l'ha estesa anche alle Ferrovie, abolendo l'obbligo ad esse imposto dal precedente governo di applicare il ccnl delle F.S.
Ieri Monti, nel momento in cui proclamava la modifica dell'art. 18, che, come detto, comporta un radicale stravolgimento della nostra costituzione materiale, quella cioè realmente vigente, parlando con Marchionne affermava, con l'orgoglio tipico del liberista, difensore della religione del libero mercato, che la Fiat rimane libera di spostare i suoi capitali in qualunque parte del mondo, dalla Serbia, alla Polonia agli USA. Solo i lavoratori non sono liberi in quanto devono restare subordinati al volere del padrone, che il governo Monti ha recentemente liberato anche da alcuni fondamentali obblighi in tema di sicurezza del lavoro.
Napolitano, operando per la nascita dell'attuale governo ed intervenendo politicamente, con durezza, come ha fatto pure ieri perché vengano assunte certe scelte, come quella della modifica dell'art. 18, ha iniziato a modificare sul piano materiale la nostra costituzione, da parlamentare a presidenziale. Si era mosso su questa strada agendo in prima persona per l'intervento del nostro paese nella guerra neocoloniale in Libia, e stacciando l'art. 11 della Costituzione. Norma, questa, già violata ed accantonata con la guerra contro la Jugoslavia del 1999 e poi con il nostro intervento militare in Iraq ed in Afghanistan.
Anche il centrosinistra si è reso responsabile del ribaltamento in senso negativo della nostra Costituzione con la modifica dell'intero suo titolo V operata con la legge cost. n. 3/2001, che ha introdotto il federalismo anche fiscale ed il grave principio di "sussidiarietà", che significa apertura alla privatizzazione di tutti i servizi, sancendo proprio la sussidiarietà dell'intervento pubblico a quello del capitale privato (art. 118, ult. comma , cost.). Con la messa in mora, quindi, non solo dell'art. 43 cost., che prevede la gestione "da parte dello Stato e ... delle comunità di lavoratori ed utenti dei servizi pubblici essenziali", ma anche dell'art. 41, 3° comma, cost., che postula la "programmazione da parte del Parlamento delle attività economiche pubbliche e private per indirizzarle a fini sociali". Principio, quest'ultimo, che assieme all'art. 3 cost. - (norma cardine del nostro ordinamento, che "prescrive alla Repubblica di rimuovere tutti gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono ... la loro effettiva partecipazione alla organizzazione politica, economica e sociale del paese") – viene definitivamente travolto con l'introduzione in Costituzione, voluta dal governo Napolitano-Monti, dell'obbligo del pareggio di bilancio (art. 81 cost.).
La posizione assunta ieri dalla CGIL, che, se conseguente, deve portare anche al ritiro della firma da essa apposta all'accordo del 28 giugno 2011con la Confindustria, è stata in particolare una conquista dei lavoratori metalmeccanici scesi in sciopero generale il 9 marzo scorso in difesa dello Statuto dei Lavoratori e quindi dell'art. 18, e di tutte le forze politiche che vi hanno attivamente partecipato.
Solo un esteso programma di lotte sociali ed una ripresa della lotta di classe a tutti i livelli può consentirci di risalire la china.
La strada da perseguire è di unire in un unico alveo tutti i movimenti di lotta anticapitalistici, dai beni comuni (Napoli insegna), alle lotte in Val di Susa, che nessun governo - data la loro cosciente soggettività e carattere di massa - potrà mai sconfiggere, se non estendendo a tutto il territorio, con metodi fascisti, la militarizzazione e l'uso, già fatto, di armi chimiche vietate anche in guerra. Ponendo come nucleo centrale la forza enorme espressa della battaglia della Fiom a difesa della democrazia e dei diritti negati nelle fabbriche. Unendo a quelle operaie le lotte che stanno riprendendo nelle scuole superiori e nelle università, consegnate dalla riforma Gelmini al capitale privato. E facendo leva sulla drammatica condizione delle masse giovanili, la cui minoranza occupata svolge solo lavori provvisori, precari, sfruttata al massimo, e la cui maggioranza è in condizione di disoccupazione, specie nel mezzogiorno, dove ha raggiunto livelli altissimi. Non è come dice la vulgata del potere una contraddizione fra generazioni, fra vecchi e giovani come nelle epoche passate, ma si presenta come la principale contraddizione del sistema capitalistico odierno, senza soluzione e che la politica economica liberista aggraverà ulteriormente, come confermato purtroppo dalla ulteriore caduta del pil.
L'obbiettivo che dobbiamo porci per il prossimo futuro è la creazione diffusa di forme di contropotere, che dovranno avere un coordinamento nazionale; e ciò richiede un lavoro politico prioritario per l'unità della sinistra di classe.
Così come la morte non ci troverà inoperosi, anche l'avversario di classe deve sapere che stiamo e staremo allo scontro a testa alta, rintuzzando in tutte le forme che la legalità ci consente la violenza diffusa organizzata oggi dal potere contro le masse popolari. Il diritto di "resistenza", sancito formalmente dalla costituzione francese del 1789 ed in particolare da quella del 1793 (art. 35, che sanciva il diritto all'insurrezione contro il governo che viola la costituzione); diritto che Dossetti, Togliatti, Moro e Basso avevano iscritto nella nostra Costituzione, deve, anche se poi materialmente non articolato, ritenersi, come insegnava il costituzionalista Mortati, un principio acquisito dall'ordinamento costituzionale. Il popolo ha diritto di ribellarsi ed insorgere contro il potere che viola il patto sociale.
Padova, giovedì 22 Marzo 2012