di Dino Greco
Liberiamoci, innanzitutto, da tutto ciò che nella manovra di Monti sul lavoro è pura (e volgare, malgrado l'aristocratico aplomb del premier) propaganda. Che l'abolizione dell'articolo 18 - vale a dire il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro nel caso di licenziamenti ingiustificati - possa favorire la fluidificazione di un mercato del lavoro che si finge ingessato da “lacci e laccioli" è una sesquipedale bugia. Perché la flessibilità in entrata è garantita, in Italia, da uno spettacolare florilegio di lavori precari e a termine, un vero “discount" delle braccia; e perché quella in uscita è ampiamente consentita, normata, praticata da una legge dello stato e da non meno vincolanti accordi interconfederali che consentono alle aziende di liberarsi dell'occupazione da esse ritenuta “eccedentaria". L'obiettivo (che più politico non potrebbe essere) del governo è dunque quello di consegnare nelle mani del padrone la facoltà di disfarsi di un proprio dipendente: in ogni momento, a proprio piacere e per qualsivoglia motivo.
La tesi del ministro Fornero secondo cui almeno per i licenziamenti di natura discriminatoria e nelle aziende di ogni dimensione sopravviverebbe il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro è, ancora una volta, manifestamente falsa. Perché la norma che Fornero millanta come farina del suo sacco è già contenuta nella legge 108 del'90, e perché l'efficacia di questa disposizione è pari a zero, giacché l'onere della prova circa il carattere discriminatorio di un licenziamento è in capo al lavoratore. E poiché sarà (come è stato sempre) scrupolo del datore di lavoro evitare formulazioni compromettenti, nessuno riuscirà (e nessuno è mai riuscito) a dimostrare l'ingiustizia del provvedimento ed ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro. La stessa considerazione vale per il licenziamento intimato per motivi economici o organizzativi (il cosiddetto “giustificato motivo oggettivo"). Se questa divenisse la scorciatoia per licenziare senza incorrere nel rischio di una sanzione giudiziaria che ripristini il rapporto di lavoro, ogni imprenditore imboccherebbe questa strada, liberandosi dell'incomodo con un risarcimento prossimo ad una mancia. E il gioco, potete esserne certi, varrà sempre la candela. Dunque, sul solo strumento di qualche efficacia elaborato dal moderno diritto del lavoro in virtù del quale il lavoratore poteva contrastare un sopruso, cala una pietra tombale. Il disegno del governo è dunque duro e intimamente perverso: si finge di parlare alla vastissima platea dei precari (resi tali da una devastante legislazione derogatoria che rimane - merita ricordarlo - sostanzialmente integra), ma si agisce per fare di ogni “prestatore d'opera", giovane o anziano che sia, una persona che una volta varcati i cancelli di una fabbrica o di un qualsiasi luogo di lavoro non è più titolare di diritti, perché il ricatto potenziale del licenziamento li vanifica tutti, in quanto il loro esercizio può essere causa di una fatale ritorsione, senza possibilità di appello e di revoca. La cancellazione dell'articolo 18, dell'architrave su cui poggia l'intero Statuto dei lavoratori, consegna dunque al padrone un potere assoluto, lo rende “dominus" indiscutibile del rapporto di lavoro e delle condizioni in cui esso si esercita: sicurezza, dignità, libertà non sono più elementi costitutivi della personalità del lavoratore, con buona pace dell'articolo 41 della Costituzione che cessa di esistere, dopo che Berlusconi ne aveva promesso l'abrogazione. Ma è l'intero impianto della Carta ad essere ormai profondamente manomesso: la sovranità del popolo in una repubblica democratica fondata sul lavoro si va trasformando nella sovranità della finanza in una repubblica autoritaria fondata sull'impresa. Del resto, cosa rappresenta la “costituzionalizzazione del pareggio di bilancio" se non l'affermazione perentoria che è soppresso l'articolo 3 della Costituzione, quello che impegna solennemente lo stato a rendere effettivi i diritti di cittadinanza? Eppure qui siamo giunti, con una fantastica accelerazione che ci precipita in una surreale spirale reazionaria. La derubricazione - sancita da Monti - dei diritti del lavoro ad “interessi particolari" racconta più di ogni altra sofisticata argomentazione quale sia il brodo ideologico di cui si nutre il governo nel suo fraudolento travestimento tecnico. L'ultimo gioco di prestigio, mimetizzato con i lustrini della modernità, non è altro che la retrocessione dei rapporti sociali ad una dimensione storica pre-ottocentesca, così come la descriveva Jean Jacques Rousseau nel suo “Discorso sull'economia": <Voi avete bisogno di me, perché io sono ricco e voi povero; stipuliamo dunque un accordo fra noi: permetterò che abbiate l'onore di servirmi a patto che mi diate il poco che vi resta in cambio del disturbo che mi prendo nel comandarvi>.
Il risveglio del sindacato (voglio dire della Cgil, perché Cisl e Uil sono ormai da gran tempo un'altra cosa) è stato brusco, dopo un lungo, colpevole traccheggiamento, interrotto soltanto dalla coraggiosa resistenza della Fiom, vale a dire dell'ultimo sindacato operaio esistente in Italia. Ora che ogni argine è crollato, la Cgil sembra comprendere che è in questione l'esistenza stessa del sindacato, stretto fra le ganasce della tenaglia saldamente impugnata da Monti e Marchionne. Lo sciopero generale di 8 ore, più altre 8 aritcolate per promuovere assemblee in tutto il paese, indica una voglia di combattimento (non di pura testimonianza) su cui occorre investire. Per non finire come negli Stati Uniti di Reagan o come nell'Inghilterra della Tatcher degli anni Ottanta.
Chi invece non riesce ad uscire dalla penosa, catatonica dipendenza da Monti è il Pd, ora costretto a balbettare una tardiva, prudente critica alle “forzature" dell'esecutivo, ma sostanzialmente prigioniero della sciagurata scelta di sostenere - insieme alla maggioranza berlusconiana - un governo che rappresenta e interpreta un blocco sociale e politico reazionario di dimensioni europee, arrogante e privo di qualsiasi scrupolo democratico.
Il tema - per troppo tempo eluso - della ricomposizione di un'unità a sinistra si impone ora con forza inedita ed offre un'opportunità che sarebbe gravemente colpevole trascurare, essendo la posta in gioco il futuro democratico del Paese.