di Domenico Moro
1. Dieci anni di arretramenti
Dieci anni fa al Circo Massimo, contro l’abolizione dell’articolo 18, si tenne la più grande manifestazione sindacale, tre milioni di partecipanti secondo la CGIL, superata forse solamente dalla manifestazione del 2003 contro la guerra in Iraq. L’articolo 18 fu salvo, con grande entusiasmo a sinistra. Eppure, si trattò di una vittoria tattica, inserita in una sconfitta strategica per il movimento operaio, cioè in un peggioramento dei rapporti dei forza complessivi. Infatti, un anno dopo passò la Legge 30/2003 (Legge Biagi), che, bypassando l’articolo 18, abbassava drasticamente il livello di tutela dei lavoratori. Il grado di protezione del lavoro, già ridottosi con il Pacchetto Treu (varato dal Primo governo Prodi, sostenuto e partecipato anche dai comunisti) crollò al di sotto di quello di Francia e Germania.
Gli esiti delle grandi mobilitazioni contro l’articolo 18 e contro la guerra hanno denotato la medesima difficoltà della sinistra a capitalizzare organizzativamente e politicamente la forte spontaneità di massa.
Il decennio che seguì vide la partecipazione dell’Italia a guerre seriali, la riduzione di salari reali e welfare, le privatizzazioni, e la crescita dei profitti dei grandi gruppi in un contesto di decadenza industriale del Paese. Dulcis in fundo, l’estromissione dal Parlamento dei comunisti, per la prima volta dal 1948.
2. Attacco forte del capitale, risposta debole
Ma veniamo all’attualità. Siamo davanti all’attacco più forte condotto dal capitale contro il lavoro salariato dalla fine della Seconda guerra mondiale. Non si tratta “solo” dell’attacco all’art. 18, la controriforma è estremamente articolata e colpisce tutti gli aspetti del mercato del lavoro. [1] Al confronto il “pacchetto Treu” e la Legge Biagi sembrano bacchettate sulle dita. Eppure, la reazione della sinistra è non è stata proporzionata all’entità dell’attacco. Una debolezza che risalta nel confronto con quanto avviene in altri Paesi. In Spagna, ad esempio, lo sciopero generale del 29 marzo contro la riforma del lavoro ha coinvolto oltre 11 milioni di scioperanti e 3 milioni di manifestanti.[2] La debolezza italiana è dovuta, in gran parte, al condizionamento esercitato dal Pd sulla CGIL e su quanto è alla sua sinistra. Il governo Monti è un “governo del presidente”, nominato da Napolitano in contrasto con la Costituzione. Per quanto la democrazia sia stata sospesa, se ne mantiene una parvenza. Questa richiede una sorta di “maggioranza parlamentare”, in effetti un patto a tre, Pd-Pdl-Udc. Il Pd fu convinto da Napolitano a rinunciare a elezioni vittoriose, ed ora si trova in difficoltà perché la controriforma del lavoro va oltre quello che si aspettava. Se la CGIL avesse accettato l’accordo con il governo e Confindustria, il Pd sarebbe stato coperto a sinistra. A questo scopo la Camusso ha cercato di resistere al tavolo delle trattative, ingoiando anche la controriforma delle pensioni, e Napolitano è intervenuto reiteratamente a sollecitare un accordo. La posizione collaborativa della Camusso, però, è venuta meno sia perché la Fiom e altre componenti della CGIL hanno determinato la possibilità di una spaccatura interna, sia perché Monti ha forzato la mano, non accontentandosi di sconfiggere i lavoratori e pretendendone lo scalpo. L’articolo 18 è, però, un argomento ultra sensibile, contro il quale la mobilitazione è più agevole che contro misure pure devastanti, ma meno chiaramente percepite a livello di massa. Il pericolo, quindi, per il Pd, è quello di spaccarsi o di perdere pezzi importanti di elettorato, con alle porte le elezioni locali e, fra un anno, quelle politiche. La soluzione a questo dilemma è stata individuata nella presentazione di un progetto di legge delega, che, a differenza di un decreto legge, è discutibile ed emendabile in Parlamento, per lasciare la possibilità ai partiti di intervenire. In più la discussione avverrà dopo le elezioni locali, in modo da evitare “condizionamenti”. Così il Pd salverà la faccia, almeno nelle intenzioni, anche se la controriforma passerà in tutta la sua devastante sostanza. Anche perché sull’impianto complessivo della controriforma non si è sollevata, da parte del Pd, una vera obiezione. Anzi, la controriforma rispecchia le proposte e gli intendimenti della maggioranza del Pd [3], compresa la disponibilità ad una “manutenzione” dell’articolo 18, come dichiarato da Bersani stesso. In questo modo, ed è il dato più importante, il governo Monti rimane in sella e continua con il suo programma.
3. La questione principale: astensionismo e allontanamento dei lavoratori dalla sinistra
È evidente che, in questo momento, l’anello debole dello schieramento che sostiene Monti è il Pd. Inoltre, è altrettanto evidente che la questione non può essere limitata al seppur centrale articolo 18, ma è relativa alla interezza della controriforma del mercato del lavoro e al mantenimento del governo Monti stesso. Pensare che, all’interno del Pd, quella che viene definita “corrente socialdemocratica” possa ribaltare la situazione è irrealistico. A prevalere largamente è una impostazione favorevole alla controriforma del mercato del lavoro. Inoltre, tutte le correnti del Pd sanno bene che isolatamente non contano nulla e, non a caso, sulla forzatura del governo sull’articolo 18 si sono ricompattate nel chiedere la scappatoia del passaggio parlamentare. Ma la questione più importante è che l’Italia e i suoi lavoratori sono profondamente cambiati, all’interno di una crisi e di trasformazioni generali non così gravi venti o dieci anni fa. Oggi, la distinzione classica tra una maggioranza di lavoratori “garantiti”, che avevano rappresentanza naturale nei partiti e nei sindacati tradizionali della sinistra, e una minoranza di non garantiti, limitata peraltro ai giovani, non ha quasi più senso a livello generale e nessun senso nel settore privato. Alla contrazione della categoria dei “garantiti” si accompagna la riproposizione, per la prima volta dal dopoguerra, della povertà assoluta e di massa. La conseguenza di questi fenomeni è il distacco dei lavoratori, da una parte, dal sistema politico e, dall’altra, dai partiti tradizionali di sinistra e, sebbene più limitatamente, anche dal sindacato. Dal primo, perché non si sentono parte di un sistema di diritti politici, sentiti come formalistici, che li esclude dai diritti sociali. Dai secondi perché vengono percepiti non solo come non in grado di difendere i lavoratori, ma neanche di rappresentarne con coerenza e credibilità le istanze. Dunque, in primo luogo si assiste ad un aumento tendenziale del non voto, stabilendosi una netta correlazione tra classe operaia (e in generale i settori sociali più poveri) e astensionismo. Questo processo si è ampliato proprio nel 2008, come esito della disastrosa partecipazione della sinistra di classe all’ultimo governo Prodi. La quota del voto dei dipendenti privati per i partiti dell’Arcobaleno crollò dal 10,4% del 2006 all’1,5% del 2008, mentre il non voto, sempre tra i dipendenti privati, si innalzò dal 22,1% al 31,3%.[4] Va ricordato che dei 2,7 milioni di voti persi dall’Arcobaleno nel 2008, rispetto alle elezioni del 2006, la maggioranza era rappresentato da astensioni e schede bianche. Solo una piccola parte andò all’Idv e una parte ancora più piccola al Pd, a dispetto del “voto utile”. In secondo luogo, si registra uno spostamento del voto operaio e dipendente verso destra, prima verso Forza Italia e, negli ultimi anni, verso la Lega o verso una sorta di neoqualunquismo, di cui uno degli esempi è il grillismo. Tutte le analisi di classe del voto e dei flussi elettorali ci dicono che il Pd e il centro-sinistra sono, da tempo, maggioranza sicura solo tra i dipendenti pubblici, cioè tra coloro per i quali è ancora valida la categoria di garantito. Ma solo parzialmente, perché tra i precari, compresi quelli crescenti della Pubblica Amministrazione, a prevalere è la destra. L’attuale controriforma del mercato del lavoro ridurrà ancora di più i garantiti e, di conseguenza, accentuerà il distacco dal voto in genere e dal voto a sinistra in particolare. Né si interromperà lo spostamento a destra del voto operaio, visto anche il riposizionamento della Lega contro il governo Monti, che contempla anche una presa di posizione contro l’alleato storico, il Pdl.
4. Necessità e possibilità di un riposizionamento politico della sinistra di classe
A tutto questo si aggiunge la riforma della legge elettorale, proposta da Pd-Pdl-Udc. A quanto sembra da quello fino ad oggi riportato dai quotidiani, si reintrodurrebbe il proporzionale, almeno in parte. L’innovazione maggiore rispetto ai venti anni trascorsi sarebbe il fatto che le coalizioni di governo si verrebbero a determinare dopo e non prima del voto. Sul Sole24ore c’è già chi si preoccupa per il venir meno della governabilità e per l’accrescimento del potere di ricatto dei piccoli partiti. Contro questa eventualità è previsto, però, uno sbarramento, pare, al 5%, i cui effetti verranno amplificati mediante la riduzione drastica dei parlamentari. Un quadro socio-economico-istituzionale come quello brevemente descritto [5] rende necessario alla sinistra di classe non solo un incremento dell’attivismo e della visibilità, ma soprattutto l’assunzione di un posizionamento politico netto contro Monti e, quindi, necessariamente verso il Pd e le sue scelte. Questo per varie ragioni. In primo luogo, perché, come ci dimostra l’esperienza degli ultimi sei o sette anni, un posizionamento diverso porta all’erosione della base elettorale della sinistra radicale. Ciò è ancora più vero oggi, perché la situazione economica e sociale si è deteriorata rispetto al 2008 e la base sociale ed elettorale della sinistra di classe è sempre più sfiduciata e scollata dal sistema politico. In secondo luogo, perché il Pd si è riposizionato ancora una volta a destra, allineandosi alle posizioni liberiste, e, nello stesso tempo, si è scoperto a sinistra. Solo un riposizionamento deciso di quanto è alla sua sinistra può incrinarne la posizione. In terzo luogo, perché la nuova legge elettorale fa venire meno la pressione a fare alleanze prima delle elezioni e, viceversa, rende necessario accumulare quante più forze possibili per superare lo sbarramento. Un sistema elettorale come quello che sembra definirsi esalterà il ruolo di eventuali “terzi poli”. Non a caso è stato caldeggiato dall’Udc e dalle altre forze terzopoliste, che, in consonanza con molti settori del capitale, mirano a realizzare un polo di centro con cui fare da ago della bilancia e risolvere un bipolarismo che per il capitale si è rivelato insoddisfacente. Intanto, già per le prossime elezioni amministrative il Pd sta privilegiando la costruzione di alleanze con il “terzo polo” di centro e, tendenzialmente, va a sinistra solo quando non vi riesce. Tutto questo, però, crea anche uno spazio politico e elettorale per un polo di sinistra. La realizzabilità e l’efficacia di un polo che metta insieme le forze a sinistra del Pd sono, però, legate allo scioglimento del nodo dell’atteggiamento verso il Pd e all’assunzione di un posizionamento politico più profilato. In parole semplici, richiede il mettersi in posizione concorrenziale rispetto al resto delle forze politiche, proponendosi come la sinistra “effettiva”, di alternativa, del Paese.
L’obiettivo principale su cui lavorare è recuperare almeno una parte del voto che nel 2008 è andato all’astensione e che ha continuato a stazionarvi o che, più limitatamente, si è spostato verso il qualunquismo o la Lega. Il clima politico a livello di massa sta cambiando e cambierà ancora di più quando si sentiranno più distintamente gli effetti delle misure varate Monti. Ci sono, dunque, i margini per superare uno sbarramento elettorale alto, purché si operi sistematicamente nei prossimi mesi col posizionamento suddetto. Ciò comporta che la difesa dell’articolo 18 venga intesa non come mera battaglia di posizione, ma come leva per un contrattacco su tutta la controriforma, allargando il discorso alle altre questioni, a partire dal fisco, con l’obiettivo della caduta del governo Monti. E, comunque, per rendere impossibile la sua riedizione, magari in forme diverse, anche oltre la scadenza della legislatura nel 2013. Una eventualità tutt’altro che peregrina e obiettivo di molte forze politiche e sociali a partire dalla Confindustria.
Da anni si ripete che i rapporti di forza sono a nostro sfavore e che dobbiamo tenerne conto. Un conto, però, è registrarli semplicemente e trarne la conseguenza che bisogna stare sulla difensiva, con i risultati che osserviamo da anni. Un altro e ben diverso conto è tenerli in considerazione e partire da essi per modificarli in meglio, costruendo consenso e organizzazione nella società. Monti è espressione di un attacco a livello europeo contro i lavoratori ed è il battistrada di un processo complessivo “reazionariamente” innovativo, tanto da essere citato come esempio “virtuoso” a livello internazionale. La risposta di classe non può che porsi allo stesso livello di generalità. È evidente che porsi su questo livello è impossibile, se la propria azione è costretta in vincoli stabiliti da un quadro tradizionale di alleanze e formule politiche, il cui ciclo di vita si è ampiamente dimostrato essersi esaurito. La possibilità di costruire consenso e organizzazione nella società è legata, ancor prima che alla definizione di pur necessarie proposte concrete sul piano economico e sociale, al recupero di una maggiore autonomia politica. In quest’ottica è necessario, per iniziare, che la sinistra, a partire dai comunisti, costruiscano una manifestazione nazionale a Roma, attraverso un appello pubblico a tutte le forze politiche, sindacali e sociali disponibili a battersi contro l’abolizione dell’articolo 18 e la complessiva politica del governo Monti e della Ue.