120414senatodi Marco Sferini

La telenovela pecuniaria leghista si lascia dietro uno strascico di anatemi, insulti e improperie contro i partiti e contro il loro ruolo nell’ambito della democrazia repubblicana. Ho sempre cercato di dare anche alle singole parole il peso che spettava loro e per questo penso che il momento storico in cui viviamo è un passaggio dalla considerazione dei partiti come luoghi di rappresentanza dei cittadini nelle istituzioni a luoghi in cui si concentra tutto il male possibile.
Considerare i partiti come “i partiti” e quindi come un insieme inscindibile di fenomeni accomunati dalla corruzione, dal ladrocinio, dalle spese folli con soldi pubblici e quindi privi di qualunque connotazione politica propriamente detta, è una forma di revisionismo dell’attualità e di cambiamento delle regole del gioco su cui si fonda l’intero impianto costituzionale.

Dalla “rivoluzione” di Tangentopoli fino ad oggi, la figura della forma partito è stata progressivamente logorata sotto i colpi dei giudizi severi, ma talvolta più che giusti e sacrosanti, dei fustigatori dell’allora sistema di corruttele che si era imperniato sulla Democrazia Cristiana e sul Partito Socialista Italiano: il potere concentrato nelle mani di un partito, insieme ai suoi satelliti liberali, repubblicani e socialdemocratici, per decenni e decenni ha prodotto in Italia la stagnazione delle gerarchie, l’irrigidimento delle sostituzioni legalmente previste. E anche laddove si esercitava il ricambio si aveva comunque la mancanza di una soluzione di continuità, per cui il gattopardismo ha trionfato senza alcun problema negli anni di quella che viene definita la “prima Repubblica”.
Da Craxi a Forlani, da Andreotti fino a Berlusconi e, con quest’ultimo, il passaggio ad una trasformazione del potere in assimilazione personalistica, esaltazione del singolo demiurgo, di un leviathano, di un sovrano che regna in una repubblica, di un imprenditore che diventa Stato e di uno Stato che viene fatto assomigliare sempre più al modello-impresa.
E così il partito, inteso come associazione libera di donne e uomini tesa a cambiare la politica nazionale, ad influenzarla secondo un proprio programma e quindi un percorso dichiaratamente manifesto, è divenuto un contenitore che non corrispondeva più al contenuto.
Chi ha resistito al tempo in mezzo ad enormi difficoltà, proprio come Rifondazione Comunista, si ritrova oggi ancora fuori dal Parlamento per via dei giochetti elettoralistici dei grandi soggetti politici che hanno manovrato “legalmente” per fare della rappresentanza e della delega popolare un elemento di preferenza verso i più forti con l’adulazione dell’utilità del voto e quindi con lo stabilire una scala di importanza tra voto e voto, tra partito e partito.
I minuti degli interventi nelle tribune elettorali potranno anche essere stati uguali per tutti, ma tutto intorno il sistema che era stato organizzato impediva e ha impedito una reale rappresentanza politica della volontà del corpo elettorale nel suo insieme.
Muoversi su una base di uguaglianza è la prima lezione da reimparare. Anche se verrebbe da dire che giustizia vorrebbe che il partito più forte avesse meno minuti in televisione rispetto a quello che è minore e che non compare mai. Una inversione di proprozionalità impossibile, come è impossibile proporre una legge elettorale che muova in senso proporzionale e non come stanno facendo, invece, Sinistra Ecologia e Liberta, Partito Democratico e Italia dei Valori che ci mettono innanzi un testo dove ancora una volta si esalta il maggioritarismo e la conglomerazione delle coalizioni non come tali ma come poli distinti, cercando quell’alternanza che non è e non potrà mai essere una vera alternativa con una dialettica tra opposizione e maggioranza, di volta in volta.
La semplicità, diceva Brecht riferendosi al comunismo, è difficile a farsi: anche in questo caso. Sarebbe semplicissimo infatti ristabilire quanto stabiliva la legge in materia elettorale fino al 1992: una legge proporzionale pura con cui in Parlamento entravano i partiti che dovevano entrare.
L’argomento dei detrattori della proporzionale è sempre stato questo: oggi la situazione è cambiata e in Parlamento ci sarebbero decine e decine di partiti con il risultato della completa ingovernabilità del Paese. Ma io domando: dopo la riforma di Mariotto Segni, sottoposta a referendum e alla quale votai contro con grande piacere, pur facendo parte dell’esigua minoranza di un’8% di italiani non sedotti dalle sirene del cambiamento uninominale maggioritario, quanti sono stati i partiti che si sono succeduti in Parlamento?
Fate un giro su Internet nel completissimo archivio elettorale del Ministero dell’Interno e vedrete. Quanta stabilità politica ha dato il Mattarelum? Quanta ne ha data il Porcellum?
Tornare alla proporzionale scombinerebbe i piani dei bipolaristi e darebbe uno scossone al Paese che dovrebbe riorganizzarsi proprio sulla base della rappresentaza. Ma naturalmente una legge elettorale dove siano presenti le garanzia di un tempo e che non contenga inganni come quel “boccone del prete” che è il “diritto di tribuna”, oppure gli sbarramenti che si vogliono richiamare al modello tedesco e che, invece che assicurare l’evitamento della dispersione del voto (anche questa tesi andrebbe tutta dimostrata…), favoriscono l’esclusione dal Parlamento di forze che prendono anche più di un milione e mezzo di voti.
Se è nell’interesse del Paese riappropriarsi del significato delle sue istituzioni, parole comprese che le definiscono, allora non c’è altra via da seguire se non quella di rifarsi al principio: “una testa, un voto”. Altrimenti potremo continuare a votare per maggioritarismi che assomigliano molto al voto per ordini che aveva bloccato i lavori degli Stati Generali e che, alla fine, condusse allo scioglimento dei medesimi e alla formazione dell’Assemblea Nazionale. La storia è maestra di vita, diceva qualcuno, ma ha dei pessimi allievi.

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