di Claudio Grassi

Per quanto si trattasse di amministrative – e, quindi, di consultazioni legate a scenari, candidati e programmi locali – le elezioni appena concluse sono state un test di valenza nazionale. Sul sistema politico italiano hanno prodotto l'effetto di un vero e proprio terremoto, paragonabile per molti versi a quanto accadde nel biennio '92-'93. E' uno scenario di incertezza e di cambiamenti dei quali è difficile prevedere l'esito.

Per ora è visibile un fenomeno di scomposizione e di crisi dei soggetti che hanno caratterizzato gli ultimi quindici-venti anni della vita pubblica italiana. Ma è difficile intravedere quali partiti, quali schieramenti, quali alleanze ne prenderanno il posto da qui alle elezioni politiche del 2013. Che sia un quadro di disfacimento e di crisi di legittimità della politica lo dimostra l'impennata dell'astensionismo (l'affluenza è scesa al 66,8 per cento al primo turno e al 51,3 al secondo). Se, oltre a questo, si tiene conto dei voti ottenuti al primo turno da liste civiche “non di partito” (oltre il 38 per cento dei voti validi), si ha un'idea del deficit di rappresentanza e di credibilità che coinvolge tutte le forze politiche organizzate.
In questo quadro di frammentazione il dato più eclatante riguarda l'eclissi del centrodestra e, nella fattispecie, dei due partiti che ne hanno rappresentato in questi anni l'ossatura: il Pdl e la Lega. L'esito dei ballottaggi al secondo turno ha reso, se possibile, ancora più evidente il tracollo di entrambi. Nei comuni oltre i 15mila abitanti il Carroccio mantiene solo due città, tra cui Verona, mentre prima delle elezioni ne guidava ben dodici. In termini di voti, la Lega raccoglie nel Centro-nord un 5,8 per cento, rispetto al 13 delle politiche del 2008 e al 17 delle regionali del 2010. I ballottaggi hanno confermato anche il disastro del Pdl. Se prima di queste elezioni il partito di Berlusconi era al governo in 49 comuni, ora è sceso a quota 12. I consensi nel Centro-nord sono calati in maniera più vistosa, dal 28 per cento delle regionali e dal 33 delle politiche a un misero 12-13 per cento. Tanto basta, secondo Ilvo Diamanti su Repubblica di ieri, a decretare la «fine del blocco nordista». «Gli attori politici che avevano inventato la questione settentrionale, oggi sono minoranza – e quasi periferici – nel Nord».
Stando alla contabilità i ballottaggi avrebbero premiato invece il Pd. Su 177 comuni al voto, 92 se li è aggiudicati il centrosinistra, mentre prima erano solo 42. Su ventisei comuni capoluoghi al centrosinistra ne spettano 14. Eppure, per quanto Bersani rivendichi la vittoria «senza se e senza ma», non è così scontato. Il suo partito fa risultato nonostante sia invischiato, a livello nazionale, nel sostegno al governo Monti e alle sue politiche antipopolari. Ma se proprio si invocano i numeri bisogna mettere nel conto anche i 91 mila voti persi per strada dal Pd nei 24 comuni capoluogo rispetto alle regionali del 2010: un decremento, stando alle ricerche dell'Istituto Cattaneo, pari al 29 per cento (sia pure mitigato dai voti andati a liste civiche in qualche modo riconducibili al Pd). Il partito di Bersani, insomma, vince ma non convince. L'impressione è che porti il risultato a casa più per demerito e inconsistenza del centrodestra che per meriti propri. E, a dirla tutta, nei laboratori più avanzati, il Pd non interpreta il cambiamento: o sostiene candidati altrui, come nel caso di Rossi Doria a Genova, oppure vincono candidati alternativi a quelli sostenuti in proprio nelle primarie, come dimostra l'affermazione di Leoluca Orlando a Palermo.
Del Movimento 5 stelle s'è già parlato diffusamente. La vittoria a sorpresa a Parma del candidato grillino, Federico Pizzarotti, conferma che siamo di fronte a un fenomeno in ascesa. Il movimento di Grillo dimostra di muoversi a cavallo dei confini politici e di poter pescare voti in tutti gli schieramenti, attirando elettori delusi e, in parte, destinati a ingrossare diversamente le fila dell'astensionismo. Epperò gli interrogativi che attendono al varco il M5S non sono pochi. C'è da chiedersi, innanzitutto, se saprà strutturarsi come una forza politica a livello nazionale, con un programma di governo e dei candidati al parlamento. Che possibilità ci sono perché emerga un gruppo dirigente alle spalle di Grillo, finora detentore incontrastato del copyright del movimento? E come si comporterà il M5S quando dovrà cominciare a “fare” politica e prendere in considerazione l'eventualità di alleanze e mediazioni? Si vedrà.

Per quel che riguarda la sinistra di alternativa le amministrative hanno restituito un quadro statico. La Fds non cala e non cresce, ma soprattutto – a eccezione di singoli casi – non riesce a intercettare il voto di protesta e il malcontento popolare che pure sta crescendo nei confronti del governo Monti. Forse, se si fosse trattato di elezioni politiche, l'agenda del dibattito pubblico sarebbe stata diversa, probabilmente più incentrata sulla crisi e le politiche economiche – temi sui quali la Fds in particolare se la sarebbe giocata con più agio. La Fds tiene, è vero – e non è poco – ma nel terremoto del sistema politico e con una crisi economica in atto si può e si deve ambire a qualcosa di più rispetto a un consenso quantificabile tra il due e il tre per cento dell'elettorato. Analogo discorso vale per Sel, ridimensionata rispetto alle aspettative alimentate soprattutto dai sondaggi. Finora la leadership vendoliana ha preferito puntare tutto sulle primarie e sullo sparigliamento interno del Pd, anziché prendere in considerazione la costruzione di un polo di sinistra autonomo dallo stesso Pd. Col passare del tempo, però, l'evoluzione del sistema politico italiano rende quel progetto sempre più irrealistico. Le esperienze di Izquierda unida in Spagna, di Syriza in Grecia e del Front de gauche in Francia dimostrano che l'unità è una componente essenziale per dare forza e credibilità al programma e alle proposte politiche della sinistra antiliberista. Viceversa dove c'è frammentazione, come in Italia, la sinistra comunista e di alternativa stenta, rimane attestata su percentuali elettorali di mera sopravvivenza e non ce la fa a dotarsi di un seguito di massa nella società. Se non ora quando? E' la prova che la ricomposizione politica rappresenta un valore aggiunto, un fattore determinante almeno quanto un buon programma antiliberista. Non basta avere buone proposte. La divisione condanna le forze della sinistra di alternativa all'inefficacia della loro azione politica. Non le rende credibili agli occhi dei soggetti e del blocco sociale che ambiscono a rappresentare. Su di loro pesa il limite della debolezza e dell'impotenza. L'unità non è una questione di semplice alchimia politica. La ricomposizione politica in un soggetto – sul modello del Front de gauche, per intendersi – è a sua volta un fattore che innescherebbe anche la ricomposizione sociale di un blocco destinato altrimenti a rimanere anch'esso frammentato, privo di rappresentanza, sprovvisto di efficacia nella dimensione dell'agire pubblico. Quella parte di società alla quale per vocazione guarda la sinistra di alternativa (lavoratori, ceti popolari, movimenti, studenti, precariato giovanile) è oggi tutt'altro che un blocco sociale coeso. Non esiste alcun automatismo che trasformi una moltitudine in un soggetto collettivo. Non ne ha la forza neppure il mondo del lavoro, oggi frammentato e indebolito in una miriade di figure, professioni, relazioni slegate tra loro. È il tema sul quale, non a caso, negli ultimi anni insiste un intellettuale come Mario Tronti, sostenitore della priorità della “forma” politica e del primato del politico. La costruzione di un soggetto politico unitario della sinistra precederebbe – non seguirebbe – la ricomposizione sociale del suo blocco di riferimento. In parte, è in gioco il problema di come ridare fiato alle forme organizzate della politica, ai partiti, in un'epoca di antipolitica strisciante. «Alla politica si arriva sempre. E sempre dalla politica si riparte. È un tema difficile. Oggi, il più difficile. Difficile, non da pensare, ma da comunicare. Su di esso si è accumulato il più diffuso dei sentimenti di rifiuto, a livello popolare, di massa, in un concentrato impressionante di senso comune. In più, una dannazione intellettuale, un rigetto culturale a farsi carico del problema. Motivi che, tutti insieme, hanno segnato il passaggio di egemonia da sinistra a destra» (http://www.centroriformastato.org/crs2/spip.php?article255). Dall'altra parte, però, esiste una necessità della politica che caratterizza nello specifico la sinistra comunista. Le classi dominanti non hanno bisogno di partiti organizzati, se non in sporadiche circostanze storiche. Non ne sentono la necessità perché la funzione dirigente che esercitano è già connaturata al modo in cui si organizzano nella cosiddetta società civile, nelle loro associazioni, nelle fondazioni, nei consigli d'amministrazione di imprese e banche. Sono le classi subalterne, invece, che hanno necessità di organizzarsi e darsi forma politica se non vogliono rimanere allo stato di una moltitudine dispersa e impotente. «In mezzo, tra il lavoratore e il padrone, c’è la politica. Sempre. Perché il rapporto di classe è un rapporto di forza. Quando il lavoratore arriva a prendere coscienza di questo, passa, come ci ha insegnato Marx, dall’in sé al per sé». Già, il rifiuto della politica: «se non si scioglie questo nodo, non si riprende il filo del discorso alternativo e dell’azione antagonista. Questo lo devono capire soprattutto i più giovani militanti, quelli a cui la politica è sembrata dare solo delusioni, compromissioni, cedimenti, a volte tradimenti».

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