di Stefano Iucci
Il percorso individuato dalla Cgil per arrivare a un nuovo Piano del lavoro che sappia rilanciare la crescita del paese è largamente condivisibile. Soprattutto è giusta l’idea che la “nostra” crisi – seppur globale e con le pesantissime responsabilità ormai in capo alle mancanze dell’Europa – abbia delle specificità italiane, frutto di decenni di assenza di serie politiche industriali, sulle quali, appunto, occorre agire tempestivamente. Questo, in estrema sintesi, il giudizio di Luciano Gallino, professore emerito di Sociologia presso l’università di Torino – e autore di alcuni dei libri più lucidi e impietosi sul decadimento e la finanziarizzazione del sistema economico e industriale italiano –, sul testo in progress elaborato dal sindacato di corso d’Italia.
Gallino ne ha parlato con Rassegna Sindacale, in un’intervista in uscita sul prossimo numero (di giovedì 5 luglio) di cui rassegna.it anticipa alcuni brani.
La conversazione parte da un quesito generale: è possibile, in un contesto come quello attuale, pensare di proporre ricette di stampo keynesiano che, come tali, necessitano di consistenti interventi pubblici? “Certo, lo spazio è ristretto – argomenta Gallino – ma bisogna cercare di trovarlo a tutti i costi. Anche per porre rimedio a un paradosso enorme: e cioè al fatto che dal 2008 in poi Usa e Ue hanno in realtà condotto gigantesche politiche keynesiane, salvando le banche a spese dello stato e a suon di milioni di euro e dollari Ue. Solo la Ue di Barroso ha tirato fuori dall’inizio della crisi al novembre del 2011 ben 4,6 milioni di euro tra spese effettive e impegni. Qualcuno ha parlato di privatizzazione del keynesismo, altri, con un espressione ancora più dura, di keynesismo imbastardito. Sta di fatto che gli iperliberisti per salvare gli istituti di credito hanno fatto ricorso a imponenti politiche, appunto, di matrice keynesiana. Sarebbe ora di farlo anche per far fronte ai problemi dell’economia reale, della produzione, della gente”.
Rassegna Parliamo dell’Italia. Nella bozza per il nuovo Piano del lavoro proposta dalla Cgil si pone una certa enfasi sull’importanza del settore manifatturiero industriale, considerato un acceleratore del valore aggiunto di tutti gli altri settori dell'economia. È d'accordo con questa visione?
Gallino Sono d’accordo, ma con alcune precisazioni. In Italia, pur con tanti problemi, resistono solo due grandi aziende industriali: Finmeccanica e Fiat. Francia, Germania e Gran Bretagna hanno ciascuna tra le 15 e 20 grandi imprese manifatturiere tra le prime 500 del mondo. E certo bisogna fare qualcosa, ma abbiamo davvero perso tanto tempo. Anni e anni senza una seria politica industriale: non sarà facile recuperare. Poi c’è un’altra questione: a quale tipo di manifatturiero pensiamo? Alcuni settori hanno senza dubbio creato benessere e sviluppo nel passato, ma ormai sono a fine corsa. Difficile pensare che su automobili, computer, telefoni cellulari si possa competere con Cina e India. L’Occidente ha portato in questi paesi risorse e tecnologia e loro hanno imparato benissimo: producono a prezzi inferiori e a livelli molto alti. Bisogna inventare qualche cos’altro. Moltissimi paesi lo hanno fatto e con ottimi risultati.
Rassegna A cosa pensa?
Gallino Credo che dobbiamo avere un’idea ampia di settore manifatturiero. Sul Piano della Cgil ci sono spunti interessanti, penso alla ristrutturazione degli edifici per il risparmio energetico, al riassetto idrogeologico del territorio. Anche questo è manifatturiero, ma non quello classico: quello che continua a moltiplicare oggetti e produzioni di cui non sempre si sente la necessità.
Rassegna Nel testo c’è un capitolo dedicato a un tema che a lei è molto caro. Quello che parla degli investimenti per la “creazione diretta di occupazione”. Si propone, si legge, di “costruire un Piano nazionale straordinario (…) con Programmi di impiego o intervento pubblico che producano consumi collettivi, ovvero beni e servizi pubblici, beni comuni”…
Gallino Sì, è un tema che mi sta molto a cuore. Partiamo dai dati, che del resto i sindacati ogni giorno forniscono. In Italia la situazione occupazionale è disastrosa; tra disoccupati, “scoraggiati” (quelli che non hanno e non cercano lavoro, ndr) e precari siamo ormai a 8 milioni di persone. Bisogna fare assolutamente qualcosa e a questo proposito nel documento Cgil trovo molte indicazioni condivisibili, per esempio l’idea di investire anche in piccole opere tecnologicamente avanzate – che possono dare risultati anche rapidi – piuttosto che nelle “vecchie” grandi opere, molto lente e complicate nel dare risposte in termini occupazionali.
Rassegna Lei è stato sempre molto critico sulla riforma del mercato del lavoro del ministro Fornero che è stata approvata proprio in questi giorni. Proprio non serve a creare occupazione?
Gallino Il ragionamento da fare è molto semplice. Noi abbiamo un grandissimo problema: il numero insostenibile di precari e lavoratori al nero, 7 milioni in totale. Con la legge del 2003 ci si era illusi che con l’introduzione dei lavori atipici questo fenomeno sarebbe stato arginato. Ma è accaduto l’esatto contrario: è esploso. La riforma Fornero questo nodo neanche lo sfiora. Le verifiche sulle partite Iva in fondo già esistevano e rendere più costose alcune tipologie contrattuali non basta, perché il lavoro precario ha questo di estremamente conveniente: evita alle imprese il problema spinoso dei licenziamenti. Basta non rinnovare i contratti.
da rassegna.it