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di Roberto Biorcio
Come cambierà la Lega dopo la sostituzione della leadership di Bossi con quella di Maroni? Se non esistessero tensioni e contrapposizioni, le trasformazioni potrebbero essere progressive e senza scosse, come si è verificato con il passaggio della leadership del Front National da Jeanne-Marie Le Pen alla figlia Marine. Il cambiamento nella Lega è più difficile, perché Bossi ha mantenuto fino al congresso federale forti resistenze alla cessione di suoi poteri. E il Carroccio risente ancora delle tensioni e delle lacerazioni che erano emerse nell'ultimo anno di partecipazione al governo Berlusconi e si sono riprodotte anche nei congressi regionali. Bossi nel passare il ruolo di leader all'ex-ministro degli interni per «mantenere l'unità della Lega» non ha nascosto le distanze e le divergenze. E d'altra parte Maroni, che aveva nei mesi scorsi spesso evocato immagini di cambiamento radicale (la pulizia morale affidata alle «scope», la «Lega 2.0»), si è soprattutto speso nel discorso di investitura a sottolineare la continuità della «Lega per l'indipendenza della Padania».
Le condizioni politiche, sociali ed economiche sono però molto diverse da quelle esistenti venti anni fa. La Lega aveva saputo interpretare e gestire la «questione settentrionale» nella prima metà degli anni Novanta, in una fase di crisi della capacità di mediazione dei principali partiti nazionali (Dc, Pci e Psi). Aveva trovato una formula originale per dare voce alle proteste diffuse sul territorio e offrire un nuovo modello di rappresentanza «sub nazionale»: da un lato si presentava come partito regionalista, come rappresentante di specifici interessi locali (il «sindacato del territorio»), dell'altra gestiva la protesta populista contro «Roma ladrona». Questa formula fu molto efficace sul piano elettorale fino al 1996, ma confinò il Carroccio negli anni successivi a una posizione di relativa marginalità. Solo con la nuova alleanza con Berlusconi riuscì a conquistare importanti posizioni di potere a livello nazionale, regionale e locale. Cambiò però in modo significativo il suo modello di rappresentanza politica. I leghisti al governo hanno cercato di presentarsi come portavoce e mediatori degli interessi del Nord a Roma, mentre veniva ridimensionato il ruolo dell'antipolitica. Un salto di qualità su questo terreno si è verificato con le accuse della magistratura al tesoriere Belsito, a Bossi e ai suoi familiari. Maroni ha chiesto pulizia cercando di mobilitare l'antipolitica e la rabbia su bersagli interni al movimento. L'iniziativa ha avuto successo nel cambiare radicalmente i rapporti di forza nel Carroccio, consentendogli la conquista della segreteria. Ma non è riuscita a modificare in modo significativo il malumore della base e a riaccendere la mobilitazione. E ha avuto soprattutto l'effetto indesiderato di accreditare l'idea che la Lega non sia diversa da tutti gli altri partiti, e che i suoi dirigenti appartengano a pieno titolo alla «casta». La sconfitta nelle ultime elezioni amministrative è stata quasi drammatica. Non si è solo dissolta l'ondata di espansione elettorale registrata tra il 2008 e il 2010, ma si sono ridotti i voti per il Carroccio al di sotto dei livelli degli anni precedenti.
La nuova leadership lancia ora la parola d'ordine «via da Roma», e promuove una serie di iniziative per ridimensionare i privilegi dei politici: ma appare poco credibile l'idea di accreditare nuovamente il Carroccio come alternativo agli altri partiti. E si è fortemente indebolita le capacità di guidare l'opposizione alle politiche del governo Monti. Maroni cercherà perciò di puntare soprattutto sul valorizzare il ruolo di «sindacato del territorio», contando sulla capacità dei sindaci e degli amministratori leghisti di interpretare e rappresentare i problemi delle comunità locali. Sulla prima pagina della Padania che presenta i risultati del congresso, si propone di assumere come modello la Csu bavarese. Si lasciano cadere i riferimenti del passato - come il modello basco o quello fiammingo - che cercavano di accentuare l'autonomia territoriale fino al limite dell'indipendenza. Il modello praticato dalla Csu prevede un'alleanza solida con un partito conservatore nazionale, per ottenere in cambio maggior potere e più autonomia di gestione degli interessi regionali. In questa prospettiva, la Lega dovrebbe abbandonare progressivamente l'identità di partito populista/regionalista per assumere quella di partito regionalista/conservatore. Questo progetto appare però molto problematico per la crisi profonda che investe il Pdl, ed è difficile la ricostruzione di un nuovo «asse del nord» con altri interlocutori politici «moderati».
La situazione attuale è d'altra parte molto diversa rispetto agli anni Novanta, e gli sviluppi della crisi economica fanno emergere nuovi problemi. Più che sulla redistribuzione delle risorse fra Nord e Sud, il malcontento e le proteste si orientano contro le politiche e le misure di austerità imposte dall'Europa, dalla Bce e dal Fmi. Con la crisi economica d'altra parte si sono sviluppati sempre più la precarietà e i conflitti redistributivi anche all'interno delle regioni dell'Italia settentrionale. Nelle recenti elezioni amministrative molti elettori leghisti si sono astenuti, altri sono stati attratti dal Movimento 5 stelle, percepito come interprete più credibile delle proteste contro i partiti e contro l'attuale governo, soprattutto nel Nordest e nelle «regioni rosse». Il movimento di Beppe Grillo sembra svolgere - come auspicato dal suo stesso leader - una funzione analoga a quella che la Lega aveva svolto nei confronti dei partiti della Prima repubblica.
da Il Manifesto, 3 Luglio 2012

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