di Giuliano Garavini

Ci sono delle cose dell’economia che non possono essere dette in pubblico. Una di queste, lo sottolineano acutamente sia Luciano Gallino che Paul Krugman in recenti contributi, è che la crisi che stiamo vivendo non è una crisi del debito pubblico ma una crisi della finanza.

In altre parole: le banche e la loro regolazione sono il male, mentre il debito pubblico non è che una manifestazione di questo come di altri mali che andrebbero curati alla radice. L’ulteriore riprova dell’indicibile è il “decalogo” prodotto dal Partito democratico in vista delle prossime elezioni politiche.

Nella carta in questione si cercheranno inutilmente i termini “banche” e “finanza”. Il paradosso è che mentre si cercano soluzioni al delitto della crisi economica, i maggiori indiziati – ricercati dai movimenti sociali di tutto il mondo – non figurano neppure. Per inciso: anche nella carta d’intenti di SEL, pur trovandosi un meritorio riferimento alla necessità di rinegoziare i trattati europei e di introdurre una tassa sulle transazioni finanziarie, le parole sulla riforma del sistema bancario sono sostanzialmente assenti. Si è tranquillamente passati dagli slogan contro Wall Street del 2008, dal “noi la crisi non la paghiamo” dell’Onda, dal dito medio alzato di Cattelan davanti alla Borsa di Milano, da Occupy Wall Street, al più assoluto silenzio sulla finanza e sulle banche alle origini di questa crisi con il suo portato di disoccupazione e smantellamento dello Stato sociale.
Eppure le responsabilità delle banche sono sotto gli occhi di tutti. I miliardi di euro e di dollari spesi per i salvataggi bancari sono proprio quelli che hanno fatto lievitare i debiti pubblici, reso indispensabili i tagli allo Stato sociale e aperto la voragine della disoccupazione. La quasi totalità degli “aiuti” a Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda va direttamente o indirettamente a rifinanziare il sistema bancario in crisi di quei Paesi e i creditori internazionali. I padroni delle banche islandesi scappano in giro per il mondo inseguiti dai magistrati del nuovo governo democratico come nazisti braccati servizi segreti israeliani. Le speculazioni finanziarie sono proprio quelle che stanno mettendo in crisi la moneta unica europea e drenano risorse dall’economia reale. Eppure sia negli Stati Uniti che in Europa la politica non prende di petto la questione delle banche, la necessità di ribaltarne la “governance” come un pedalino, nonché di introdurre limitazioni e regole alla libertà di movimento dei capitali.
La domanda a questo punto sorge spontanea. Perché? Perché le classi dirigenti politiche, salvo poche e rare eccezioni come Syriza in Grecia, non gridano ai quattro venti delle colpe del sistema bancario e della necessità che questo subisca una buone dose di bastonate? La risposta è purtroppo semplice: perché queste classi dirigenti sono ricattate. Se un partito, specie di un paese periferico e sotto attacco speculativo, si presentasse alle elezioni con un programma di riforma della finanza e delle banche questa sarebbe una sicura ricetta perché grandi banche ed investitori istituzionali (gente che ha nome e cognome) si rifiutino di comprare titoli di Stato di quel Paese, costringendo così il politico in questione ad una veloce retromarcia o lo Stato a fronteggiare una disastrosa bancarotta.
Senza entrare troppo nel dettaglio su come ciò sia potuto succedere, su come cioè la classe politica e il popolo tutto si siano ritrovati privi della possibilità decidere in piena libertà democratica su questioni cardinali, alcuni brevi cenni storici sono necessari.
Fino agli anni ’70 lavorare nel settore delle banche commerciali era universalmente noto come “boring”: una noia mortale. Essenzialmente le banche commerciali, la maggior parte delle quali in Europa erano direttamente controllate dallo Stato, raccoglievano risparmio ed erogavano crediti ai risparmiatori. La regola del buon banchiere americano era detta del “3-6-3”: John, il direttore della filiale x, raccoglieva risparmio al 3 per cento, prestava al 6 e alle 3 del pomeriggio di nuovo a giocare a golf. Semplice, pulito, non particolarmente eccitante e senza rischi per nessuno. D’altra parte, le banche di investimento erano poche e relativamente piccole, a conduzione familiare o “partnership” (Goldman Sachs, Lazard Frères, Merrill Lynch) e prestavano soldi a clienti fidati e conosciuti, di norma biondi con gli occhi azzurri e usciti dalle università americane dall’Ivy League o provenienti dalle famiglie nobili europee. I capitali tendenzialmente restavano all’interno dei confini nazionali.
Il punto di rottura avvenne negli anni Settanta quando, in seguito alla crescita di quelli che si chiamavano allora gli “euromercati” (dollari guadagnati dalle multinazionali americane dell’Europa occidentale e che rimanevano in Europa) e poi dei “petrodollari” (dollari arabi che hanno inondato i mercati a causa dell’aumento esponenziale del prezzo del petrolio), le banche sia americane che europee si ritrovarono a disposizione una crescente massa di capitali e cominciarono ad esserci forti pressioni per investire questi capitali in modo più redditizio e creativo che in passato.
Arrivarono poi gli anni Ottanta delle “deregulation” finanziaria promossa, come ci insegna Rawi Abdelal in “Capital Rules”, sia dalle classi dirigenti europee che da quelle americane,  anche come modo per compensare con la maggiore produttività del settore finanziario la crescente perdita di competitività del settore industriale tradizionale, vittima della competizione di nuovi aggressivi concorrenti nel mondo in via di sviluppo. Ecco così: la creazione di prodotti finanziari sempre più complessi, la totale privatizzazione del sistemi bancario europeo innescata dal Mercato unico con la conseguente dipendenza dei Governi dal benvolere di entità finanziarie private, la trasformazione delle banche di investimento in gigantesche “corporation” assetate di profitti a breve e governate da formule matematiche e algoritmi piuttosto che dalla conoscenza diretta dei propri clienti, l’ingordigia delle banche commerciali che si lanciano in acquisizioni ed in operazioni finanziarie spericolate e, alla fine di tutto questo processo, la creazione di una enorme massa di liquidità finanziaria che, anche escludendo i prodotti finanziari derivati, nel 2009 era pari a oltre 4 volta la ricchezza “reale” mondiale prodotta.
Rispetto a questo processo epocale di finanziarizzazione dell’economia e di governance delle banche talmente opaca da non darci modo di saper niente rispetto alle loro effettive condizioni patrimoniali la politica non dice assolutamente nulla. Nulla sulla necessità che le banche commerciali tornino semplicemente a gestire depositi e ad assistere i risparmiatori, nulla sull’abolizione dei bonus a breve termine per i manager finanziari, nulla sul modo in cui la finanza è tornata a gestire direttamente grandi e piccole aziende, fino a quegli enti locali che hanno dato retta a consulenti finanziari senza scrupoli. Nulla di nulla perché in caso contrario questa enorme massa di liquidità minaccia di spostarsi da un paese all’altro, da una paese meno virtuoso (che difende i suoi cittadini fornendo servizi pubblici) ad un altro più virtuoso (che taglia servizi sociali e vende i suoi gioielli di famiglia). Staremo a vedere se nel futuro della campagna elettorale italiana l’indicibile diventerà dicibile.
 
da Paneacqua.eu

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